Umanità Nova, numero 27 del 4 settembre 2005, Anno 85
Pubblichiamo una lettera inviataci da una nostra collaboratrice,
Ricke, che nei giorni del ritiro israeliano da Gaza, si trovava a
Nablus.
Nei tre mesi da lei trascorsi nel territori occupati della
Cisgiordania, ha avuto modo di essere testimone della resistenza
popolare alla costruzione del Muro ed alla dura repressione
dell'esercito. Spesso, avendo scelto di svolgere un ruolo di
osservatrice in prima linea, ha dovuto fuggire dai lacrimogeni, dai
proiettili di gomma, dalla violenza degli uomini e delle donne in
divisa.
Questa è una prima testimonianza in presa diretta su quello che sta accadendo lungo le rive del Giordano.
L'altro giorno ho visto costruire il Muro a Qalandia, lo snodo
principale dei trasporti da nord a sud della Cisgiordania. Qalandia
è un incrocio infernale con un braccio chiuso da un check point
e gli altri tre eternamente bloccati dal traffico. Il Muro che
lì arriva da Gerusalemme si interrompe improvvisamente, come
spesso accade. La sua costruzione non segue infatti nessuna logica
intelleggibile, non e' progressiva e lineare ma disordinata e
frammentata. L'altro giorno hanno ricominciato a costruire, non
proseguendone il tracciato ma nel mezzo di nulla, trasversalmente alla
parte esistente. Una gru alzava lastre di cemento alte nove metri e le
appoggiava allo scavo, una accanto all'altra. Nella mezz'ora in cui ho
osservato i lavori, ne hanno piazzate cinque. Dove si appoggiavano le
lastre la vista dell'altro lato rimaneva totalmente chiusa. Nei tre
mesi passati nella Palestina occupata non mi era mai capitato di
assistere ad una scena così brutalmente esemplificativa della
politica israeliana dei "dati di fatto sul territorio", più
banalmente conosciuta come "legge del più forte". Il Muro non e'
solo una teoria, un piano, un progetto, sono centinaia di concretissimi
Km di cemento, sollevati da gru, piantati in solchi scavati da ruspe,
manovrate da operai, difese dall'esercito.
Secondo i progetti del governo israeliano Qalandia dovrà smettere di essere un check point interno al territorio palestinese per diventare un posto di frontiera, come Erez a Gaza. Da un lato la Grande Gerusalemme con gli enormi insediamenti che la circondano, dall'altro la parte Nord della Cisgiordania, separata totalmente dalla parte Sud, oltre che naturalmente dalla striscia di Gaza.
L'annessione ad Israele di tutta l'area di territorio palestinese intorno a Gerusalemme, l'espansione degli insediamenti, l'esproprio conseguente dei terreni e l'abbattimento delle case e' uno dei molti fenomeni che in Cisgiordania stanno accompagnando ciò che l'opinione pubblica internazionale ha benevolmente salutato come "Ritiro da Gaza". In Israele tutta la sinistra radicale antisionista ma anche le voci critiche di intellettuali, analisti e analiste politiche, storici e storiche non hanno mai smesso, in questi mesi, di muovere un accorato appello al mondo: non vi fate accecare dalla cortina di fumo di Sharon. Il ritiro da Gaza non e' un passo verso la fine dell'occupazione ma e' un passo di consolidamento dell'occupazione della Cisgiordania, dove vivono 400.000 coloni che nessuno ha intenzione di sgomberare. 400.000 coloni la cui solo presenza è una garanzia che l'occupazione non dovrà né potrà finire mai.
Israele si e' ritirato da Gaza, una striscia di sabbia stracolma di profughi disperati e abitata da qualche migliaio di coloni assai meno ideologici di quelli della Cisgiordania, nella maniera più spettacolare possibile. Non c'è stata barricata incendiata, cordone di manifestanti incatenati, lacrima di sgomberato che non sia stata ripresa e trasmessa in tutto il mondo. Con tutta la comprensione umana per l'angoscia di chi deve lasciare la propria casa e' forse interessante ricordare che le famiglie sgomberate hanno ricevuto indennizzi astronomici, che sono pronte case per loro sia in Israele sia in Cisgiordania, ma soprattutto che ogni anno nell'Israele travolto dalla crisi economica migliaia di persone perdono la propria casa per debiti, senza che nessuno offra loro né denaro né un'intervista con la stampa mondiale.
Eppure mesi e mesi di megaraduni infiocchettati di arancione, di
manifestazioni pacifiche o violente, di spettacolare resistenza agli
sgomberi (certo possibile solo grazie alla polizia e all'esercito
più gentili della storia del mondo), hanno parecchio acceso gli
animi di coloni e colone. Nelle ultime settimane sotto il loro fuoco
sono morti otto palestinesi in due diversi attentati, in Israele e in
Palestina. Le aggressioni sono incalcolabili. Negli ultimissimi giorni
solo nella zona di Nablus sono stati ripetutamente attaccati circa
dieci villaggi, in azioni che difficilmente si potrebbero chiamare con
altro nome che pogrom. Nella zona a Sud di Hebron alcuni
microscopici villaggi di pastori resistono da mesi agli attacchi
dei coloni solo grazie alla presenza giorno e notte di attiviste e
attivisti israeliani e internazionali.
A questi picchi di violenza si va ad aggiungere la violenza strutturale
dell'esercito occupante. Solo come esempio tra i molti che si
potrebbero fare, nei villaggi in cui prosegue da mesi una coraggiosa e
fantasiosa resistenza popolare nonviolenta alla costruzione del Muro,
dunque all'esproprio delle terre agricole, la repressione militare ha
raggiunto ormai livelli insopportabili. La volontà di resistere
degli abitanti viene spezzata nelle maniere più atroci. In un
villaggio particolarmente attivo, Marda, accanto all'insediamento di
Ariel (circa 20.000 abitanti, da solo più del doppio di tutti
gli insediamenti di Gaza), l'esercito da qualche tempo penetra di notte
nelle case arrestando bambini e adolescenti e facendoli letteralmente
sparire per settimane e a volte mesi, periodo in cui vengono torturati
come ogni altro prigioniero adulto. Inutile domandarsi perché a
Marda le manifestazioni si siano fermate nell'attesa che le famiglie
vedano rientrare a casa tutti i propri figli.
Un'ultima considerazione: i coloni se ne devono andare via tutti, ma non perché israeliani ed ebrei, non dunque per un principio di purezza e ordine etnico di qua e di là del muro. Ma perché ladri ed assassini, in maniera diretta o indiretta. In montagna accanto a Nablus vive una comunità di Samaritani. I Samaritani sono un'antichissima setta ebraica. Alla fondazione dello stato di Israele hanno scelto di non lasciare Nablus, che è per loro città più sacra della stessa Gerusalemme. I Samaritani, che godono di alcuni privilegi concessi loro dallo stato di Israele in quanto ebrei, come la carta di identità israeliana e la targa gialla con cui possono percorrere tutte le strade dentro alla Cisgiordania (l'apartheid inizia con il diritto al movimento), si considerano tuttavia, e vengono riconosciuti ed accettati, come dei locali. Molti di loro usano questi privilegi per trasportare merci e persone, alleviando l'isolamento della città e rischiando così la prigione. Ogni giorno entrano a Nablus, supposta roccaforte del terrorismo islamico e dell'odio antiebraico, dove lavorano da millenni, disarmati, senza scorta militare, come cittadini, amici, vicini di casa.
È forse utile ricordarci sempre che le persone hanno il
diritto di vivere dove desiderano. Sta a loro saper costruire quelle
relazioni di reciproca accettazione e responsabilità condivisa
per il territorio abitato che dovrebbero essere a fondamento della
cittadinanza.