Umanità Nova, numero 29 del 18 settembre 2005, Anno 85
La tragedia di New Orleans, con le sue terribili conseguenze sulla parte più povera della popolazione, in gran parte nera e immigrata, è quella della metropoli più miserabile degli Stati Uniti, con il 27% degli abitanti e il 40% dei bambini sotto il livello di povertà: questa è la verità che il governo Usa non ha voluto e saputo ammettere.
Una tragedia di classe che, non per caso, è stata affrontata prima mandando militari ed elicotteri pronti a far fuoco sui "saccheggiatori" che insidiavano la proprietà privata, esattamente come se fossero stati degli insorti iracheni, quindi sono stati inviati i primi soccorsi.
Non solo "tolleranza zero", ma occupazione militare di un territorio come se si trattasse di una zona straniera, al punto di richiamare ed impiegare truppe veterane dell'Iraq.
Il ghetto non solo fa ancora paura ma, non essendo più funzionale alle politiche di sfruttamento e controllo, diventa una realtà semplicemente da eliminare: succede negli Usa, ma la stessa logica la ritroviamo pure nelle città italiane, continuamente teatro di "bonifiche" forzate di aree, campi, caseggiati, quartieri ritenuti a rischio.
Solitamente, le ipocrite amministrazioni locali e le istituzioni statali motivano tali provvedimenti come misure sociali contro l'emarginazione, l'illegalità e il degrado, ma il copione vede ogni volta in azione ruspe, manganelli e deportazioni.
Una volta, il ghetto serviva anche ai capitalisti, in quanto assolveva alla funzione di serbatoio per le fasce più disastrate dell'esercito industriale di riserva, fornendo forza-lavoro a basso prezzo da impiegare contro la più agguerrita working class.
Ormai però, nella società del neoliberismo e delle crisi permanenti, l'utilità economica del ghetto è andata svanendo, rimanendo soltanto un problema sul piano del controllo.
D'altra parte in quella che è stata definita "workfare society" il principale meccanismo d'integrazione è il lavoro (basti vedere le leggi che prevedono la "regolarizzazione" dei migranti attraverso il loro contratto lavorativo): chi è fuori dal mercato del lavoro difficilmente vi rientrerà e così è tagliato fuori dai più elementari diritti di cittadinanza. La "tolleranza zero" interviene così per togliere di mezzo gli esclusi, i devianti e i nuovi "asociali", infatti la repressione e la carcerazione non riguardano più infatti soltanto i "criminali", ossia quanti sono ritenuti colpevoli di aver violato la legge, ma si estende a macchia d'olio ai migranti, ai senza dimora, ai nomadi, ai senza reddito, compresi anziani e bambini.
In questo c'è un evidente paradosso perché l'ideologia neoliberale che propaganda le leggi di mercato come le più giuste ed efficaci, poi è costretta a chiedere allo Stato di garantire il loro funzionamento attraverso l'uso della forza; ma è solo una contraddizione apparente, ben conoscendo l'autoritarismo insito nel liberalismo.
I ghetti originari, come gli slum o le banlieu, erano invece realtà collettive, con proprie regole, modi di essere, relazioni sociali, anche se frutto della discriminazione e dell'emarginazione di un gruppo sociale o etnico, e nonostante che il modo di autorganizzarsi del ghetto fosse inevitabilmente dipendente da questa forzata condizione di subalternità. Eppure rimaneva una dimensione collettiva, che prevedeva forme di tutela e solidarietà tra chi viveva nel ghetto. Non è infatti un caso che, nelle diverse epoche e nei diversi contesti ambientali, si può parlare di cultura del ghetto; basti pensare cosa ha significato nei secoli la ghettizzazione negli afroamericani e delle altre minoranze negli Stati Uniti, protagoniste ad esempio di innumerevoli innovazioni musicali ed espressive.
Ma oltre ad essere un laboratorio d'innovazione e comunicazione, il ghetto è stato anche la culla di rivolte ed incendi sociali che in più d'un caso hanno minacciato di uscire dai confini del ghetto stesso, per estendersi ad altri settori della società.
Un rischio, per i guardiani e i beneficiari dell'attuale ordine sociale, oggi non più accettabile.
KAS