Umanità Nova, numero 29 del 18 settembre 2005, Anno 85
Venti anni fa aveva termine in Brasile una delle più lunghe dittature militari nella storia dall'America Latina e dopo soltanto di 17 anni il Brasile avrebbe eletto a capo dello Stato un dirigente sindacale, un governo sindacalista. Come è stato possibile?
Certo non può esservi stato alcun cambiamento politico rispetto ai governi passati apertamente neoliberisti: la disputa tra l'ex-presidente F.H.Cardoso e Lula è stata, ed è tuttora, solamente di potere. Ma bisogna anche dire che, diversamente da ciò che può aver creduto la maggioranza della popolazione nel corso della frenetica campagna elettorale, Lula ed il Partito dei Lavoratori (PT) non hanno mai rappresentato un fattore di rottura politica, anzi hanno rappresentato la doverosa continuità tra la governabilità militare in esaurimento ed una transizione alla nuova governabilità democratica. Più che un paradosso, questo è un modo di valutare i fatti per quello che hanno di politicamente rilevante, cioè osservarne la strategia. Ed è appunto un calcolo politico che si cela nel facile discorso della ri-democratizzazione brasiliana: il frutto democratico di cui si sono serviti in gran fretta i movimenti sociali e la sinistra brasiliana porta nel suo interno i semi di una nuova schiavitù.
Con questo non si vuol però dire che tutto è come prima. Sarebbe come dimenticare il suo passato di leader di massa, attivo nelle lotte operaie. Oggi Lula, il sindacalista che governa, ha uno stile proprio: come leader sindacale ha il temperamento del condottiero di masse, del populista, del protettore; è portatore dei vecchi discorsi della sinistra degli anni '60 che sono ancora efficaci nell'immaginario popolare latino-americano, ed inoltre porta con sé l'immagine del migrante del nord-est (regione brasiliana di estrema povertà) che ha vinto le dure prove della città industriale.
Uno sguardo all'insieme mostra però che il Brasile non è un caso isolato: il Venezuela, prima ancora di Lula, aveva eletto un "rivoluzionario bolivariano"; la recente vittoria nell'Uruguay di Tabaré Vázquez, il primo governo di sinistra dopo 180 anni di storia politica conservatrice, è stata salutata dalla presenza del leggendario José Mujica, ex-guerrigliero Tupamaro (principale resistenza uruguayana alla dittatura); l'ultima crisi equadoriana, può essere guardata anch'essa come "espressione democratica": il deposto Gutiérrez era arrivato al potere grazie alla sollevazione del gennaio 2000, condotta dalla Confederazione delle Nazionalità Indigene (CONAIE), a sua volta nata in precedenti lotte indigene per i diritti costituzionali.
Quindi c'è tutt'altro che equivalenza con i governi neoliberisti dell'elite governatrice bianca ed europea. Si tratta di qualcosa di più profondo. Il ruolo che rappresenta l'arrivo al potere dei leader popolari in America Latina è paragonabile alla funzione che hanno svolto i vecchi socialisti parlamentaristi in Europa: con le loro azioni hanno fatto perpetuare la logica neoliberale umanizzandola, hanno consolidato la nuova governabilità democratica correggendone alcuni difetti e dando precedenza ai suoi meccanismi di controllo.
Ci si può chiedere: ma nella democrazia non ci sarebbe più libertà? Può darsi. Però la domanda è senza senso. Più che chiedersi se l'attuale governabilità democratica concede più libertà dei vecchi regimi militari, bisognerebbe analizzarne il funzionamento. Nei fatti, i limiti legali che sono stati imposti dalla governabilità democratica allo Stato dittatoriale non sono stati motivati da esigenze di rispetto della libertà degli individui, ma dai calcoli economici-politici che vedono la necessità della democrazia quale elemento della nuova razionalità politica. Non è stato il semplice passaggio da un governo autoritario ad uno meno autoritario, da minore a maggiore libertà, perlomeno non soltanto di questo si tratta. Quando il neoliberalismo produce libertà, lo fa da un lato organizzandola entro quadri giuridici ed istituzionali, e dall'altro per mezzo di interventi governativi che creano condizioni senza precedenti nella società. Per questo bisogna evitare di confondere la libertà formale nello Stato democratico con il fatto concreto, cioè la capacità ed il potere di azione dei gruppi e degli individui nelle cosiddette democrazie.
Comunque, libertà è sempre questione di forza, di scontro tra governanti e governati, quindi la governabilità democratica non può essere mai considerata suolo fertile per pratiche di libertà: senza dubbio si tratta della nuova utopia capitalista in cerca di una schiavitù economica più sopportabile, di schiavi forse meglio alimentati ed umanizzati, e sicuramente più rimbecilliti.
È così che Chávez, nonostante il suo discorso antiamericano, ha "migliorato" la governabilità del Venezuela. Una sistematica azione sociale ed un forte appello emozionale caratterizzano il suo governo; con la pratica di ciò che ha chiamato "missione" - programmi sociali diretti al cuore della popolazione più povera - ha reso il popolo "più vicino" al potere. Il suo principale programma, il "Mercal", è stata la distribuzione di Stato di cibi a prezzi popolari: in pochi anni l'insoddisfazione del popolo per la situazione economica tra i venezuelani è diminuita e l'adesione alla democrazia rafforzata.
Anche il governo Lula ha ideato "Fame Zero", il programma di distribuzione di alimenti di base alle famiglie povere. E sarebbe stato comico se la questione non fosse terribilmente tragica: si è visto nei media l'immediata commozione per la povertà da parte del fior fiore della élite brasiliana: padroni e banchieri, politici ed intellettuali si sono affrettati ad esibire la loro sensibilità, aderendo pubblicamente al "Fame Zero" di Lula. Queste strategie si inquadrano nel discorso carismatico, un discorso teso all'annullamento di qualunque immaginario di rottura tra governo e governati, un discorso che ripete: "pure io sono stato operaio come voi, pure io parlo come voi, pure io penso come voi, io sono come voi", e questo ha dato a Chávez, Lula e Fidel il titolo di leader più importanti dall'America Latina: sicuramente hanno l'innegabile merito di allungare la vita del capitalismo.
A dispetto di ciò, il progetto neoliberale per l'America Latina è "cronicamente insostenibile" (per citare l'incisivo film del brasiliano Sérgio Bianchi). Si tratta di una delle regioni più povere del mondo con il 44% della popolazione che vive al di sotto del livello della povertà. Una delle scommesse del neoliberalismo è stato il tentativo di inclusione massiccia nel gioco liberale di grandi popolazioni etniche, le cui culture locali sono state distrutte dagli effetti del mercato globalizzato; un processo che potrebbe esser paragonato ad una pretesa inclusione delle masse contadine inglesi negli apparati produttivi delle fabbriche del XIX secolo.
Ma, come ben si sa, i Cocaleros della Bolivia, popolazioni indigene che si occupano dell'ancestrale coltivazione della pianta di coca, sono oggi il principale fattore di resistenza al programma americano di lotta al narcotraffico e di militarizzazione della regione. In Brasile, la massa di contadini "sem-terra", mobilitata per rivendicare la riforma agraria, è stata il principale ostacolo alle politiche neoliberiste. Le Forze Armate Rivoluzionarie dalla Colombia (FARC) sono la più forte opposizione alla politica americana nel paese. I rivoluzionari Bolivarianos del Venezuela sono l'avamposto di resistenza alle politiche della élite appoggiata dagli USA. E, naturalmente, lo zapatismo messicano. Insomma, sono le grandi popolazioni di indios e di contadini che oggi sono fonte di resistenza ai postulati liberali di lasciare libero gioco ai meccanismi spontanei del mercato, i quali non sono altro che la vecchia libertà borghese di sfruttare il lavoro altrui col massimo profitto.
Questi conflitti sociali fanno dell'America Latina un luogo di instabilità politiche, che la recente governabilità democratica è stata per ora incapace di superare. Infatti, il susseguirsi di dittature ed i diversi regimi militari che hanno marcato gli anni del dopoguerra fino alla fine della guerra fredda, hanno fatto sì che il processo di consolidamento dello Stato di diritto sia ancora tutt'altro che concluso. A guardar bene, l'America Latina esiste solo in modo precario come regione politica: le sue istituzioni democratiche non sono ancora ancorate a valori politici, come in Europa. Nella geopolitica latino-americana, la democrazia ancora non esiste come stile di vita, come sistema di valori vitali. Il processo è ancora in corso e dal suo successo dipenderà la futura sopravvivenza del capitalismo nella regione. Lo sanno bene gli Stati Uniti e l'Europa e ciò spiega la preoccupazione del ministro degli Esteri del governo socialista di Zapatero che ha recentemente detto ai leader latino-americani: "è necessario articolare il rigore neoliberale con programmi di coesione sociale".
Ma lì dove la persuasione non riesce, subentra la forza. In Brasile vi è la seconda maggiore popolazione carceraria del pianeta. Ogni mese sono imprigionate circa di 9400 persone contro 5900 che ne escono. In otto anni, tra il 1995 e il 2003, la popolazione delle carceri brasiliane è passata da 148.760 detenuti a 308.304, con un incremento di oltre il 60%: 188 detenuti e 8 giudici ogni 100mila abitanti. Segue l'Argentina con un ritmo di incarceramento ancor più veloce: in soli cinque anni il numero di persone detenute è aumentato del 60%.
Segni della mancanza di "coesione" neoliberale... Ma questa è ancora compensata dalla forte ingerenza militare nord-americana, che si è intensificata negli ultimi anni nei quali sono state installate basi militari a Manta (Equador), a Três Esquinas e Letícia (Colombia), a Iquitos (Peru), a Rainha Beatrix (Aruba) ed a Hato (Curaçao). Queste basi completano l'accerchiamento del Continente, sommandosi alle già esistenti basi di Vieques (Porto Rico), di Guantánamo (Cuba) e di Soto de Cano (Honduras). Le prossime installazioni saranno in Salvador ed in Argentina, mentre si profila il controllo della già esistente base di Alcântara in Brasile. Inoltre, in Colombia gli USA sono oggi impegnati nella guerriglia di maggiore durata dopo quella in Vietnam. La Colombia è oggi il terzo principale ricettore di "aiuto" americano, dopo Israele ed Egitto, mentre l'intervento americano è più consistente di quello sostenuto in Salvador durante la guerra civile dagli anni '80.
In questo scenario il ruolo dagli anarchici è promettente, ma la sfida è grandissima.
Nildo Avelino