Umanità Nova, numero 30 del 25 settembre 2005, Anno 85
"Puliremo le nostre strade dai neri, dai gialli, dai nomadi e dai rossi"
(G. Gentilini, al comizio leghista di Treviso, 11 settembre 2005)
La sostanziale stasi delle lotte operaie e delle agitazioni sindacali,
nonostante l'aggravarsi della situazione economica e sociale, ha
indubbiamente svariate cause che in molti cercano di analizzare ed
affrontare, ma tra queste forse si tendono a sottovalutare le
conseguenze sulla consapevolezza e la combattività proletaria
derivanti dalla contaminazione razzista.
Se da un punto di vista sindacale, la Lega Nord ha infatti dovuto registrare negli anni scorsi il fallimentare tentativo di far sorgere un Sindacato Padano morto sul nascere, da un punto di vista "culturale" è innegabile che l'ideologia razzista e xenofoba propria del leghismo è penetrata anche tra i lavoratori, tanto che è tutt'altro che infrequente imbattersi nei posti di lavoro in posizioni che sicuramente attingono alla più becera propaganda padana, fatta di astiosi luoghi comuni e coltivate paranoie collettive.
Da qualche tempo però non siamo più di fronte soltanto ad un'intolleranza che si accanisce verso gli immigrati, anche se lavoratori, ritenuti causa di ogni problema sociale che in qualche modo possa toccare i ceti popolari, dalla disoccupazione alla mancanza di case, dai bassi salari alla microcriminalità, ma assistiamo alla stupefacente allineamento da parte di ceti sfruttati alle parole d'ordine della media e piccola borghesia, come quelle attorno alla cosiddetta invasione dei prodotti Made in China che si estende con accenti assolutamente ostili e infondati all'intera comunità cinese e, per estensione, a tutte le persone d'evidente origine orientale.
La Lega Nord, da parte sua, per far fronte ad una crisi d'identità interna causata dalla sua responsabilità governativa a fianco di Berlusconi, continua a premere sul facile acceleratore dell'odio razziale contro le "orde" straniere, nemiche della nostra civiltà, che di volta in volta assumono il volto dei turchi, dei cinesi, degli islamici, degli africani, degli slavi e persino degli ebrei.
È una propaganda continua, diffusa, rozza e assolutamente violenta nei toni e nelle argomentazioni, quindi di facile presa in ambienti sociali penalizzati da un punto di vista sia economico che culturale, in cui hanno facile presa la semplificazione rancorosa e il chiudersi all'interno dentro la comunità d'appartenenza, sia questa il paesello pedemontano o la tribù amicale che si ritrova al bar sport.
In tali contesti, non c'è spazio per sensibilità verso l'altro e approcci critici verso la realtà: come osservava Le Bon riguardo la psicologia delle folle, "la personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità sono orientati in una medesima direzione. Si forma un'anima collettiva, transitoria".
Un'identità questa che si rafforza nell'avversione verso l'estraneo, il diverso, appunto l'extra-comunitario.
Basti una citazione, tra le tante, dell'incendiario onorevole Borghezio: "siamo i figli dei figli che hanno combattuto a Lepanto e abbiamo tanto sangue nelle vene. La Padania è bianca e cristiana", per comprendere come siamo in presenza di un razzismo che mescola polenta, integralismo cristiano e slogan del White Power.
Ulteriore conferma viene dalla paradossale battaglia dichiarata dai leghisti contro il cous-cous, accusato di minacciare la cultura occidentale attraverso una "arabizzazione" strisciante delle tradizioni gastronomiche. Eppure non è certo la prima volta che l'odio razziale viene innescato da simili banali differenze. Popoli che mangiano carne di maiale o di altri animali vengono ancora oggi contrapposti a quelli, magari confinanti, che rifiutano questo tipo di alimentazione; altrettanto è accaduto in tempi passati, per una opposizione di bevande fermentate come vino e birra.
Questi sono esempi di forme culturali che tendono poi a venire trasferite come costitutive del gruppo etnico che le riproduce e l'irrazionale è che il punto di partenza, per queste espressioni di intolleranza, è un'ideologia delirante che viene imposta da pochi e trasferita ai più, abilmente sfruttando i fenomeni di malcontento che serpeggiano nelle epoche di crisi.
Eppure la storia qualche precedente ce lo fornisce, per comprendere il senso di certa propaganda.
Si riveda, ad esempio il Manifesto degli scienziati razzisti, reso noto durante il regime fascista, che anticipò le famigerate leggi razziali del 1938.
In esso, tra l'altro, si affermava che "È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall'altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili".
Che oggi sia stato scientificamente smentito tale delirio, già all'epoca del tutto risibile, sembra del tutto secondario: il potere del pregiudizio ignora in partenza ogni assunto razionale.
Ma l'aspetto più inquietante è quello accennato all'inizio, in quanto per le classi sfruttate il nemico non è più "la società capitalistica con tutte le sue ideologie e tutti i suoi istituti religiosi, politici, militari, parlamentari, giuridici e sociali" (come veniva scritto su Umanità Nova all'indomani della Liberazione), ma diventano altri sfruttati.
Da questo punto di vista resta, paradossalmente, d'attualità sovversiva la dichiarazione d'intenti della prima Associazione Internazionale dei Lavoratori risalente al 1864: "la soggezione economica del lavoratore nei confronti dei detentori dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, è la causa prima della schiavitù in tutte le sue forme, di ogni miseria sociale, di ogni pregiudizio spirituale e di ogni dipendenza politica" e che tutti i tentativi rivolti all'emancipazione dei lavoratori "fino ad oggi sono falliti per mancanza di solidarietà tra le diverse branche di lavoro di ogni paese e per l'assenza di un'unione fraterna fra le classi lavoratrici dei diversi paesi", riconoscendo di conseguenza come regola della condotta tra gli individui "senza distinzione di colore, di fede o di nazionalità" soltanto: "verità, giustizia, moralità".
Anti
PS. Per quanto riguarda il cous-cous vale la pena ricordare che si
tratta di un cibo che appartiene da diversi secoli alla gastronomia
italiana (si trova persino nel famoso ricettario dell'Artusi, alla voce
Cuscussù). In particolare si conoscono almeno tre cucine in cui
è presente: in quella trapanese, dove si ritrova ben prima
dell'arrivo dei pescatori dalla Tunisia, e in quella livornese dove fu
importato dagli ebrei esuli dalla Spagna alla fine del VI secolo
(entrambi a base soprattutto di verdure e pesce); inoltre in quella
sarda dell'arcipelago del Sulcis (originariamente solo vegetariano)
introdotto nel XVII secolo dai pescatori liguri di corallo che, dopo
aver abbandonato la Tunisia, si fermarono nell'isola di S. Pietro.