Umanità Nova, numero 34 del 23 ottobre 2005, Anno 85
Il mondo del lavoro esce da questi ultimi anni di globalizzazione
sfrenata e di governi conservatori e guerrafondai con le ossa rotte.
Non è chi non veda che il capitale è all'offensiva
ovunque, non solo a livello di aggressività bellica, di
occupazione di ogni spazio di immaginario, ma anche e con grande
decisione e determinazione nello snodo del rapporto diretto con il
lavoro vivo di cui ha comunque bisogno per alimentarsi. Da qui lo
smantellamento di un apparato normativo che era stato da un lato frutto
di lotte e conquista, dall'altro addirittura il freno normativo a
più radicali rivendicazioni. Meglio: con l'introduzione di una
normativa legittimante ogni più bieca forma di sfruttamento e di
precarizzazione del lavoro, senza abrogare di fatto l'impianto del
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, si è di
fatto raggiunto lo stesso obiettivo.
Occorre por mente al fatto che la precarizzazione del lavoro è motivata dalla necessità di stare sul mercato quando i prezzi della manodopera cinese o indiana sono decisamente competitivi. Il che significa che il cosiddetto sviluppo funziona al contrario, nel senso che in paesi capitalisticamente giovani non si danno quelle garanzie per i lavoratori che sono state la norma, ad esempio, qui da noi. La favola quindi del mercato che libera va rispedita al mittente. Piuttosto, lo sviluppo serve a peggiorare, nell'attuale congiuntura, le condizioni di vita dei lavoratori dei paesi a capitalismo maturo, cioè tutti i paesi occidentali.
Di fatto, anziché un esercito di riserva di disoccupati qui da noi, il capitale usa come leva di ricatto contro i lavoratori occidentali le sterminate masse di contadini inurbati dell'Asia, soprattutto della Cina o i paesi dell'Est Europa usciti dal disastro economico umano e sociale del socialismo reale, vero e proprio Far West dietro l'angolo. È banale dire che il crollo dei regimi dell'Est Europa abbia permesso in questi ultimi anni la delocalizzazione di molte attività produttive di medie dimensioni in paesi non molto lontani e totalmente aperti al mercato senza freni. Bisogna però riflettere sul fatto che il fenomeno non accenna a smettere e che l'ingresso di molti paesi dell'Est Europa nell'Unione Europea non porterà tanto facilmente ad un miglioramento delle condizioni di lavoro, economiche e di sicurezza, dei lavoratori di quei paesi.
Qui sta tutta la drammatica ironia del fatto che la legislazione della Unione Europea ha cessato da tempo di essere strumento di allargamento dei diritti e sta invece funzionando al contrario, per smantellare garanzie e sicurezze sociali conquistate dal movimento dei lavoratori in duecento anni di lotte. Se quindi da noi l'ordinamento giuridico va in tensione quando le norme nazionali più garantiste per i lavoratori si devono adeguare a nuove direttive comunitarie nel segno della precarizzazione, nei paesi da poco entrati nell'orbita dell'Unione Europea i lavoratori conosceranno sempre e solo precarietà e poca sicurezza, spingendo quindi anche verso il basso le condizioni qui da noi.
Di nuovo, l'allargamento del mercato crea solo rovine, di cui in effetti il capitale si nutre per natura. Per sua natura il capitale trasforma ciò che è vivo in qualcosa di morto. Il nemico del capitale è la vita, la vita della natura e degli uomini. Il capitale è un produttore di disastri, di insicurezza, di morte.
Se quindi l'allargamento del mercato svela facilmente la sua maschera di ipocrita liberazione, occorre riflettere sul fatto che essa non trova ancora una resistenza organizzata da parte dei lavoratori.
In occidente le lotte sociali degli ultimi anni sono state all'insegna della difesa di quel che c'era, nel migliore dei casi; spesso, sindacati e partiti di sinistra non hanno fatto altro che scegliere di cogestire l'arretramento dei lavoratori e la precarizzazione delle loro condizioni. Qui con chiarezza si è mostrata l'incapacità di costruire percorsi condivisi di opposizione all'esistente e di spinta alla trasformazione radicale.
Nei paesi di giovane capitalismo la situazione va dalla Cina, terribile esempio di capitalismo a partito unico; all'Est Europa e ai tanti altri paesi dove il controllo delle attività produttive e del lavoro spesso passa per le mani della criminalità organizzata o dove, semplicemente, non c'è legge e fare sindacato può costare la vita.
Per sua natura il capitale è onnivoro ed in perenne movimento. Per loro natura i lavoratori sono in grado di opporsi al capitale solo collettivamente. L'internazionalismo sta quindi nel dna del movimento dei lavoratori. Ma internazionalismo significa spezzare le frontiere artificiali che il capitale pone agli uomini, mentre il denaro e le merci sono libere di scorrazzare per il mondo. Internazionalismo significa stringere rapporti con i lavoratori dei paesi, delle città, dove sono delocalizzate le attività un tempo svolte in occidente. Internazionalismo significa sostenere anche materialmente chi opera per costruire ovunque le organizzazioni dei lavoratori e chi lotta per ribaltare il rapporto tra capitale e lavoro.
Alzare la testa e guardare il mondo che intorno a noi è teatro dei disastri del capitale. Alzare la testa e mettersi a lottare non solo per salvare quel che fu conquistato da altri qui da noi, ma per allargare gli spazi di libertà uguaglianza solidarietà. Alzare la testa: il capitale non dà tregua al lavoro; non diamo tregua al capitale.
Simone Bisacca