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Umanità Nova, numero 35 del 30 ottobre 2005, Anno 85

Iraq: la farsa del processo a Saddam
Regolamento di conti tra cosche concorrenti



Da un tormentone all'altro, come se fosse da un depistaggio all'altro.
Non sono ancora finiti gli echi dell'esito, tutt'oggi ignoto, del referendum iracheno sulla Costituzione, che già si recita a soggetto sul palcoscenico dei media mondiali la farsa del processo a Saddam Hussein. 

È strano come non si sappiano i risultati del referendum. Per entrare in vigore la Costituzione, deve essere approvato dalla maggioranza degli elettori recatisi alle urne, tranne se in tre province non prevalessero i voti contrari. Si tratta di una clausola di salvaguardia degli elettori di religione sannita, maggioritari appunto in tre province irachene, sebbene il partito egemone in due su tre abbia dichiarato il suo sì al voto referendario, dopo le promesse di un ritocco a tutela della minoranza a ridosso delle elezioni politiche del prossimo anno. E allora, se in una provincia i no hanno prevalso, e nelle altre due a rischio ancora nulla si sa, essendo l'unico dato certo l'affluenza alle urne intorno al 60% (pur in un ambiente caotico e di guerra, sembrano pochini visto che formalmente nessuno militava per l'astensione), il sospetto è che stiano arrangiando i voti già espressi affinché corrispondano ai desiderata dei veri padroni occupanti, la cui portavoce Condoleeza Rice ha già espresso il verdetto cui lo spoglio dovrà corrispondere.

Forse proprio per dare tempo al tempo del ritocco, ecco l'apertura del processo a Saddam, per il primo dei numerosi capi di imputazione il cui giudizio, beninteso già espresso sulla carne delle vittime a prescindere da ogni differenza di religione, di etnia o di lingua, arriva fuori tempo massimo, prescritto dalla messinscena mediatica e giudiziaria e conforme alla tipica abitudine di processare i vinti in quanto sconfitti, e non tanto in base ai crimini dei quali Saddam è giustamente incolpato, ma con lui altrettanti capi di stato e leader politici in giro per il pianeta.

Il processo non è solo per i media mondiali, chiamati a distrarre i propri giornalisti dalle azioni di guerra e di guerriglia, nonché dalle analisi scomode su fatti passati e presenti (Falluja docet). Il processo gioca peraltro una funzione catartica e vendicativa al tempo stesso, sia perché suona come una sorta di vendetta per le vittime dei carnefici del rais, curdi e sciiti in primo luogo e oggi al comando per grazia ricevuta (dagli americani invasori); ma anche come una sorta di teatralizzazione catartica per il nuovo Iraq che dovrà risorgere democratico su una specie di autodafé assolutorio per le proprie dinamiche sociali, inalterate dal cambio eteroguidato di regime, che trova in Saddam il reo necessario per condannare non solo la dittatura passata, ma anche per assolvere in anticipo le malefatte del regime importato senza le necessarie condizioni di fondo (società civile autonoma, libertà di pensiero e di associazione, eguaglianza di forma e di fatto dei gruppi sociali, fruibilità dei canali di accesso alle risorse vitali per l'esistenza organizzata dei segmenti di base della società, lì ancora su base clanica, ecc.).

Saddam il sanguinario ben si presta a finire fucilato o impiccato, sorte che ogni dittatore dovrebbe subire in tempo reale, ben prima che possa combinare guai peggiori per il proprio popolo. Nessuno se ne rammaricherà, eccetto i puristi del formalismo giuridico e giudiziario che pretendono giudici terzi e equidistanza in fatto di prove tra accusa e difesa, il che non accade mai, nemmeno in tempi di pace, figuriamoci in tempi difficili come il conflitto armato in corso in quella terra martoriata. 

Tuttavia la giusta fine di un dittatore per mano non della giustizia del popolo insorto contro il dittatore, ma per mano lontana del più potente e stupido dei leader planetari, reitera una logica in cui a perdere non c'è solo la vita del malcapitato sconfitto di turno, quanto e soprattutto quella di intere popolazioni che passano da un giogo all'altro senza poter intravedere uno spiraglio reale di autogoverno. Del resto, da Norimberga e Tokyo nel dopoguerra ai giudizi dell'Aja su Milosevic e la sua cricca, la tendenza di colpire anche capi di stato formalmente immuni dalla bilancia della dea bendata, e quindi forti dell'impunità loro concessa tanto in tempi di fortuna, quanto in tempi di magra, si rafforza in epoca umanitaria solamente sui vinti, contro cui evidentemente non è più sufficiente il duro verdetto della storia che li vede soccombere dopo anni di vittorie a mani basse, magari foraggiate e sostenute dai suoi odierni carnefici (come è il caso di sempre, da Milosevic partner affidabile a Dayton a Saddam compratore di armi chimiche tedesche e americane da utilizzare per gasare i curdi con il pieno apprezzamento delle potenze oggi occupanti), ma richiede uno spettacolo di redenzione che concentri l'attenzione solo ed esclusivamente sulle malefatte di uno solo, l'imputato reo, come se solo una persona, sia pure dittatore indiscusso, possa essere responsabile di una situazione geopolitica complessa che ha visto per decenni sacrificati i curdi e gli sciiti, anche quando, invitati a rivoltarsi, si sono ribellati invano perché lasciati improvvisamente soli a contrastare i giannizzeri sguinzagliati dal dittatore, con il beneplacito della pubblica accusa odierna, e quindi sterminati senza pietà.

In genere, parteggiamo per i vinti e i detenuti e i colpevoli della storia. Facciamo con piacere una eccezione per Saddam, rammaricati anzi perché anzitempo non si sia riusciti a neutralizzarlo e farlo fuori. Ciò non toglie, però, che non cadiamo nel tranello del vittimismo spettacolare che convoglia tutta la rabbia e l'indignazione contro un rais decaduto, mentre il giusto bersaglio dovrebbe essere individuato negli attuali responsabili della guerra permanente che nel mondo miete vittime a destra e a manca, unico nostro parametro di riferimento per ribadire la condanna di ogni potere, in atto o fuori corso, in quanto inesorabilmente criminale.

Salvo Vaccaro

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