Umanità Nova, numero 37 del 20 novmbre 2005, Anno 85
"Martino in Iraq: l'Italia non scappa", così titola il "Corriere
della Sera" del 14 novembre. E subito sotto: "Baghdad: senza di voi
[italiani, ovviamente, ndr] anarchia nella regione". È
difficile, e in un certo senso anche ammirevole, vedere concentrarsi
tanta idiozia in due sole righe. Ma si sa, le guerre, anche questo
riescono a fare: scatenare la capacità di rivelare quanto gli
esseri umani, certi esseri umani - fossero anche i ministri della
difesa di questo grande paese o i notabili fantocci di quell'altro -
possano essere ancora più idioti di quanto appaiano e di quanto
si possa immaginare. E tirare fuori da persone, altrimenti benpensanti
e correttamente educate nelle migliori università, tutto il
vuoto pneumatico che ne riempie la scatola cranica.
Sono ancora fresche le immagini, agghiaccianti e disumane, mostrate
dallo splendido servizio di Sigfrido Ranucci su Rai News 24. Che ci
hanno raccontato, con l'evidenza di ciò a cui non si sarebbe
nemmeno voluto credere, la barbarie a cui si abbassa per conservare i
propri privilegi, la nazione più colta, progredita, ricca,
"bene" del mondo, quella unanimamente riconosciuta come il faro delle
pasciute coscienze occidentali. Una indecenza e una infamia, fatta di
crudeltà e pratiche "sperimentali" in corpore vili a
fianco delle quali, per ferocia, potremmo accostare solo le famigerate
"ricerche cliniche" del dott. Josef Mengele nel campo di Mauthausen.
Cose che pensavamo relegate "al ricordo di infame passato".
È difficile accettare che nel 2000, in questo terzo millennio, che dovrebbe far impallidire, per l'alto grado di "civiltà" raggiunto, gli antichi secoli dei Lumi, possa ancora accadere quanto mostratoci nelle crude immagini televisive con le quali Ranucci ha documentato gli effetti, che non possiamo neppure aggettivare, del fosforo bianco, il cosiddetto Willy Pete, o del nuovo napalm, massicciamente usati da democratici soldati dell'Ohio o della South Carolina sulle popolazioni civili della millenaria terra dei due fiumi.
Falluja, un nome tristemente ricorrente ormai da due anni, a tragico simbolo di una resistenza repressa con strumenti ed intendimenti che sembrano far retrocedere al ruolo di esercitazioni da educande le stragi e i massacri compiuti dai nazisti nei confronti delle indifese popolazioni italiane durante la guerra. Allora donne, vecchi e bambini, e oggi, ancora, donne, vecchi e bambini. Bruciati nel corpo, a fuoco lento, da sostanze chimiche che corrodono, lentamente e inesorabilmente, i tessuti umani. E che lasciano intatti, nella loro asettica perfezione tecnologica, i tessuti e le stoffe che vestono quei corpi. Falluja, un simbolo, ormai, come Lidice o Marzabotto, un segno di come la guerra possa trasformare chiunque, anche il più sempliciotto e pacioso adolescente del mid-west, in una belva criminale pronta, pur di eseguire gli ordini impartiti, a fare cose che gli toglieranno il sonno (o almeno così vogliamo pensare) per il resto della vita. Falluja, quello a cui non si può credere nemmeno se un giornalista ostinato e il suo caposervizio riescono a trasmetterne le immagini, a mostrare quanto l'uomo moderno, civile e cresciuto a nutella e principi "democratici", riesca ancora a fare per non farci dimenticare le sue origini belluine.
Non riusciamo a cogliere con esattezza, perché un servizio pubblico televisivo, che siamo abituati a considerare semplice cinghia di trasmissione delle volontà politiche che se ne spartiscono le strutture, abbia deciso di mandare in onda questo documento. Sicuramente, oltre all'onestà professionale del giornalista che l'ha girato, ci sarà qualche cosa d'altro e non sappiamo se per favorire chi vuole uno sganciamento immediato della missione italiana in Iraq oppure per fornire un alibi a chi ancora vuole convincerci che un ritiro immediato non si può fare se non un po' per volta, grado per grado. E non sappiamo nemmeno se quello che abbiamo visto sia riuscito a scuotere più di tanto le coscienze assopite di una opinione pubblica pervicacemente stordita e ingrassata dai gossip mediatici.
Ma tutto ciò ha poca importanza, a questo punto, di fronte alla crudezza di quanto abbiamo dovuto vedere. E soprattutto di fronte alla consapevolezza della complicità, oggettiva e soggettiva, del nostro paese in questi delitti. Una complicità che si è cercato di nascondere dietro la cortina fumogena della ricerca di armi di distruzione di massa (bastava cercare nel più vicino magazzino militare americano), di "visite al fronte" di berlus-cloni vari con il cappello da parà e lacrimuccia sul ciglio, di interpellanze parlamentari sul "ruolo dell'Italia nel contesto internazionale", di sfilate tronfie e impettite di fronte ai commilitoni dei "martiri di Nassirya", della solita retorica dell'italiano brava gente impegnato non a proteggere a mano armata le zone petrolifere per conto dell'Eni, ma a distribuire caramelle e quaderni ai bambini iracheni, della necessità di fare la nostra parte che non è quella un po' estremista di Zapatero, ma quella di mantenere gli impegni internazionali anche se fanno schifo. Insomma, "di non scappare per impedire che l'Iraq cada nell'anarchia". Come, appunto, titolava il "Corriere della Sera".
Chi mi legge sa che non mi è abituale definire idiota anche chi si sforza di dimostrarsi tale a ogni piè sospinto. Non è politicamente corretto, nè tantomeno elegante. Però, questa volta, anche rovistando nel vocabolario, un termine più appropriato non sono proprio riuscito a trovarlo. Con tutta la più buona volontà! Dio non voglia, però, che Martino e i notabili del "nuovo Iraq" siano stati fraintesi e che l'epiteto loro riservato sia ingiusto e ingeneroso. Come potrebbe succedere, una volta su un milione, anche a chi, di rimestare nel letame "ne fa professione"!
Massimo Ortalli