Umanità Nova, numero 2 del 22 gennaio 2006, Anno 86
C'è qualcosa di insopportabilmente falso, e di strumentale, nell'esaltazione "virile" che in questi giorni ha accompagnato il tragico video girato due anni or sono, nel quale un mercenario italiano, Fabrizio Quattrocchi, viene freddamente ucciso da elementi della resistenza irachena. Ed è altrettanto insopportabile lo sfoggio di una retorica cupamente riecheggiante la retorica criminale che mandò al macello milioni di soldati nelle infinite guerre che hanno segnato il Novecento. Una retorica melensa e triviale, fatta di inutili "eroismi" e di mal riposta "dignità" che pensavamo dovesse essere ormai relegata, per non uscirne più, nel suo posto più naturale: l'immondezzaio della storia.
E invece no. Nonostante gli immensi danni morali e materiali di cui è corresponsabile, la prosopopea della "bella morte" e dell'orgoglio di "sentirsi italiani" continua senza vergogna a fare mostra di sé e a essere terreno di semina per quei volgari politicanti e quegli ipocriti benpensanti che da sempre ingrassano alla sua ombra.
Non c'è niente di eroico, a mio parere, nelle immagini dello scoop mostrato in questi giorni. Anzi, in quelle parole ormai famose e ripetute a petto in fuori, nel riparo dei seggi parlamentari e degli incarichi ministeriali, da quei tristi figuri che ancora tengono il busto del duce sul loro comodino, scorgo solamente una evidente, e non inconsapevole, vena di razzismo, poggiata su una presunta superiorità morale "dell'italiano" da ostentare stupidamente in faccia al mondo. Avrei capito di più il "coraggio" di Quattrocchi se costui, invece di annullarsi in una astratta italianità, avesse esclamato, con più semplicità e meno enfasi: "vi faccio vedere come io muoio". Se non altro, lasciando da parte quella inutile e vuota enunciazione nazionalistica, avrebbe reso a se stesso un servizio migliore. Ma questo, invece, gli era precluso. Perché da quello che ci è stato dato di sapere su questo "eroe italico", dalla sua formazione al suo poco onorevole mestiere, un ragionamento più modestamente umano e meno tronfio non potevamo certo aspettarcelo. Era cresciuto credendo che i valori veri fossero quelli, e così, non potendo fare altro, ha espresso quei "valori" fino alla fine.
Ma se Quattrocchi era, in fin dei conti, solo un poveretto che ha
pensato che il suo sangue freddo potesse contribuire a riscattare un
orgoglio nazionale quotidianamente irriso da una realtà
economica e sociale che non fa sconti alla demagogia, non degli
esaltati ma dei freddi calcolatori si sono dimostrati quegli sciacalli,
mirabilmente bipartisan, ai quali non è parso vero poter
riprendere a banchettare con le spoglie di quella sfortunata body-guard
al servizio degli occupanti americani, che ha trovato una gran brutta
morte nel deserto iracheno.
Fortunatamente è durata poco – anche alle porcherie c'è
un limite – ma per alcuni giorni i tromboni nostalgici di quelle
antiche e presunte grandezze che vantavano "otto milioni di baionette"
ma poggiavano su carri armati di latta, hanno ridato fiato alle trombe
di uno stupido orgoglio nazionale che pensa di poter nascondere, dietro
la vuota esaltazione della sacralità della cosiddetta patria, la
concretezza del costante arretramento del nostro paese in tutti i
campi. E dall'altra parte caterve di sindaci e amministratori di
"sinistra", lanciati in nobile gara per non lasciare ai soli fascisti
il monopolio della demagogia e della retorica. Non sappiamo se sia
più vergognosa la proposta di Veltroni di intitolare una strada
romana al mercenario o quella, avanzata da AN, ma fatta propria anche
dai Ds, di concedergli una medaglia alla memoria. Del resto, cosa
aspettarsi, quando Margherita Boniver, già esponente di un
partito che una volta si chiamava socialista, ha affermato,
infischiandosene del ridicolo, che "quella frase entrerà nei
libri di storia"?
È chiaro che, come anarchici, abbiamo una scala di valori che nulla ha a che vedere con quella che si è espressa così pesantemente in questi giorni. Ci consideriamo, e siamo, cittadini del mondo, nel senso che la nostra non è un'appartenenza a una nazione, ma a una idea, che vorremmo universale, di civiltà. Per noi non esistono paesi grandi o piccoli, né ci devono essere nazioni in grado di primeggiare sulle altre in nome di una presunta superiorità. Perché questa presunta superiorità non può essere altro che fonte di autoritarismo e oppressione. Come quotidianamente constatiamo. E il nostro orgoglio si esprime solo quando, anche con il nostro contributo, un popolo conquista la possibilità di condividere i diritti più elementari: il diritto alla salute, all'educazione, al benessere, alla libertà. Alla libertà dallo sfruttamento, alla libertà dalla paura. E l'essere davvero eroi non è il dimostrare un coraggio fisico fine a se stesso in circostanze impreviste, ma essere capaci di sacrificarsi, e anche perdere qualcosa o molto di sé, purché quel "qualcosa" o quel "molto" apportino un altro tassello sulla strada della libertà e dell'emancipazione. E non su quella dell'oppressione!
Massimo Ortalli