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Umanità Nova, numero 3 del 29 gennaio 2006, Anno 86

Afganistan
Le scarpe della Nato


Non toglierti le scarpe, prima di aver sondato le acque.
(Proverbio afgano)


Bagram, sede della più importante base militare Usa in Afganistan, rappresenta forse il più emblematico paradosso della storia di questo martoriato paese. Bagram per la sua posizione geografica, fin dai tempi antichi ha visto scontrarsi popoli, culture, imperi; soltanto nel passato più recente Bagram ha visto combattere e morire ben quattro armate: quella russa, quella britannica, quella islamica e quella statunitense.

Il reporter di guerra Tim Judah, in un suo recente libro, si é chiesto non casualmente se i futuri storici non dovranno cercare proprio a Bagram le ragioni anche del declino Usa.

I bollettini ufficiali di guerra, allo scorso 9 gennaio, registravano soltanto 255 militari statunitensi morti in Afganistan; ma, anche se questa cifra assai poco credibile rispondesse a verità, la sconfitta strategica Usa, dopo cinque anni di occupazione, é nei fatti.

L'Afganistan rimane infatti quasi come uno spazio sospeso nella storia, in cui la più grande potenza economico-militare non solo non é riuscita ad imporre il proprio ordine, ma dove le tanto sbandierate parole-feticcio degli occupanti, quali democratizzazione e pacificazione, oltre a scontrarsi con la realtà della guerriglia – "anche peggio che in Iraq” secondo la testimonianza di un capitano Usa pubblicata recentemente sul New York Times - scivolano soprattutto nel contesto sociale afgano come acqua piovana su una foglia.

Secondo numerosi analisti e alti gradi del Pentagono, da tempo avrebbe dovuto avvenire un collasso totale delle resistenze armate filotaleban, invece queste si rafforzano e si estendono.

Le "forze multinazionali di pace” non cessano di sottolineare i progressi del processo di ricostruzione attraverso i Prt (Provincial Reconstruction Teams) attraverso una capillare proiezione sul territorio di unità miste civili-militari, mentre l'Onu vanta ottimi risultati sia nella riduzione della produzione di oppio che nella realizzazione del Programma di disarmo; ma chi opera in Afganistan unanimemente nega tale idilliaca rappresentazione.

Il governo Usa si appresta a ridurre la propria presenza militare, cercando di passare le consegne alla Nato che guida la missione internazionale Isaf (International Security Assistance Force); è stato lo stesso Rumsfeld ad annunciare che in questi mesi il numero dei soldati Usa passerà da 19 mila a 16 mila. Intanto gli stati aderenti alla Nato dovrebbero mobilitare altre truppe in previsione di un'ulteriore estensione operativa dell'Isaf nelle province meridionali, dove dovrebbero schierarsi reparti britannici, olandesi e canadesi, come previsto dal 3° tempo della Fase 2 della missione.

Attualmente, come é noto, la missione Nato-Isaf è attualmente a guida italiana nella persona del generale Mauro Del Vecchio del Comando Rapid deployable corps Italy di Solbiate Olona (Varese), al quale, nel prossimo aprile, subentrerà un parigrado inglese; dal comando Isaf dipendono il reparto per la gestione dell'aeroporto internazionale di Kabul ed attualmente i Prt di Maymana (UK), Mazar-e-Sharif (UK) e Konduz (GE), Feyzabad (GE) e Fole Khumri (NL) nell'area Nord dell'Afganistan, nonché i Prt di Herat (IT), Farah (US), Chagcharan (LI) e Qal e Now (SP), nella parte occidentale dell'Afganistan.

Per coprire i vuoti lasciati dalle forze Usa, nei prossimi mesi il numero dei militari della missione multinazionale dovrebbe salire da 9 mila a 15 mila (siamo già a quota 11 mila), come annunciato nello scorso ottobre dal segretario generale dell'Alleanza Atlantica Jaap de Hoop Scheffer in visita a Kabul. Alcuni governi Nato, a partire da quelli spagnolo, inglese e italiano, in questo senso hanno da tempo iniziato a rafforzare la propria presenza militare in Afganistan contestualmente alla progressiva riduzione del numero delle loro truppe in Iraq. Anche la Svezia e l'Australia hanno deciso un rafforzamento dei propri contingenti (rispettivamente da 100 a 375 e da 190 a 500).

E la prosecuzione di tale impegno, per quanto riguarda l'Italia, é già stata anticipata dallo stesso Prodi nel caso che il centro-sinistra vinca le prossime elezioni, senza che i partiti che si definiscono "alla sinistra dell'Unione” siano stati in grado di impedire o modificare tale orientamento interventista, destinato a realizzare la cupa previsione del ministro della Difesa, Martino, che nel giugno 2005 previde "un altro decennio in Afganistan”.

D'altra parte, neanche ciò che resta del movimento no-war appare intenzionato ad opporsi a tale indirizzo, tanto che nel manifesto del Social Forum Europeo per la Giornale internazionale del prossimo 18 marzo contro la guerra e le occupazioni, l'Afganistan incredibilmente non appare neanche menzionato.

Eppure la partecipazione tricolore va ben oltre il presidio di circa 2 mila militari italiani dispiegati ad Herat e Kabul, oltre alla permanenza di una unità navale nell'Oceano Indiano nell'ambito di Enduring Freedom. Il governo italiano, oltre ad alcuni interventi di tipo "umanitario” ma comunque affidati a reparti militari, sta infatti da tempo svolgendo un ruolo determinante nella ricostruzione dell'apparato repressivo statale per conto del governo Karzai, sia provvedendo all'addestramento delle forze di polizia, sia contribuendo al ripristino delle strutture carcerarie. È notizia recente, divulgata dal quotidiano economico Financial Times, che il tristemente noto complesso carcerario di Pol-e-Charki, nelle vicinanze della capitale, diventerà un carcere speciale stile Guantanamo, grazie anche al determinato apporto economico italiano (1 milione di dollari dei 2 previsti), in un contesto in cui la tortura, le vessazioni, la morte dei detenuti é raggelante routine, come confermato dalle indagini e dalle rivelazioni attorno all'uccisione di alcuni prigionieri ad opera di militari Usa nelle celle presso la base di Bagram.

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