Umanità Nova, numero 3 del 29 gennaio 2006, Anno 86
Quest'articolo è stato pensato e scritto in occasione
dell'ottantesimo anniversario della morte dell'anarchico italiano esule
a Montevideo, che cadeva nel 2005. Poi gli avvenimenti convulsi che
hanno caratterizzato il panorama politico e sociale di fine anno lo ha
fatto slittare in avanti, oltre l'anniversario. Abbiamo tuttavia
l'ardire di credere che Fabbri, redattore di tanti giornali e riviste e
di questo nostro stesso giornale ai tempi della sua fondazione, avrebbe
capito e persino approvato questa nostra scelta.
Nel panorama dei pensatori e militanti anarchici di lingua italiana,
Luigi Fabbri (Fabriano 1877 - Montevideo 1935) è sicuramente una
delle figure più importanti e rappresentative. Grazie, infatti,
alla lineare coerenza del suo pensiero, Fabbri contribuì come
pochi altri a mantenere il movimento nel solco della tradizione
proletaria, sociale e rivoluzionaria che aveva connotato, fin dalla
nascita, l'anarchismo italiano. Se Pietro Gori fu il poeta e il
conferenziere capace di richiamare uditori attenti ed entusiasti, se
Errico Malatesta fu il comiziante e il trascinatore, l'uomo d'azione
protagonista della lotta nelle strade e nelle pagine di mezzo mondo, se
Luigi Galleani mosse all'entusiasmo e allo sdegno chiamando all'azione
diretta, Luigi Fabbri fu un ragionatore, spesso originale e sempre
efficace, che affidava alla potenza formativa della parola scritta, al
ragionamento logico, all'esposizione pacata ma ferma dei principi, il
compito di formare rivoluzionari in grado di tradurre nei fatti il filo
dei suoi ragionamenti.
Avvicinatosi al pensiero libertario in giovanissima età, Fabbri conobbe presto gli effetti della repressione crispina subendo a più riprese, per semplici reati a mezzo stampa, carcere e confino. A vent'anni lo vediamo collaboratore di Errico Malatesta, cui resterà legato tutta la vita con affetto filiale, nelle pagine dell'anconetana "L'Agitazione", la prima delle innumerevoli pubblicazioni di cui sarà fondatore o assiduo collaboratore. Da allora fino alla morte, che lo coglierà nel pieno delle energie intellettuali nell'esilio uruguayano, Fabbri sarà uno dei maggiori protagonisti dell'anarchismo, partecipando a tutte le iniziative vissute dal movimento libertario in quegli anni cruciali.
Dietro l'aspetto del padre di famiglia, non fu uomo da sottrarsi agli "incerti del mestiere" o da sgomentarsi di fronte alle intimidazioni, e difatti accettò serenamente, come conseguenza inevitabile del suo portato sovversivo, la repressione dello Stato e i colpi del fascismo. Eppure non lo si vide mai predicare o usare la violenza, come ricorda la figlia Luce quando scrive che "la sua mano non è mai stata armata, non ha mai imparato ad usare la pistola, né l'ha mai posseduta. La sua ripugnanza per la violenza aveva qualcosa di fisico. Eppure era un rivoluzionario". Un rivoluzionario talmente lucido e concreto, da affermare con convinzione che, in una Italia dove l'analfabetismo era ancora diffusissimo, l'opuscolo sovversivo per eccellenza era il sillabario.
Furono due, lui e un testimone di Geova, i maestri che, in tutt'Italia nel 1926 rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime fascista, e per questa scelta, che veniva a sottrargli l'unica fonte di sostentamento rendendo precaria l'economia famigliare, dovette espatriare clandestinamente, prima in Francia, dove contribuì alla ripresa e alla riorganizzazione del movimento disperso dalla repressione fascista, poi in Sud America, dove portò i frutti della sua riflessione nelle folta e turbolenta colonia di anarchici di origine italiana. Editore e pubblicista, dette vita ad alcune fra le più importanti testate dell'epoca, da "Il Pensiero", palestra culturale nella quale si confrontarono le più importanti penne dell'anarchismo internazionale, a "Volontà", che prima e dopo la guerra fu insostituibile strumento di lotta e propaganda; da "Umanità Nova", il quotidiano degli anarchici organizzati nella Unione Anarchia Italiana, a "Pensiero e Volontà", l'ultima, ma non la meno importante, delle pubblicazioni dirette da Malatesta. E anche nell'esilio si prodigò nell'opera di chiarificazione tesa a ridare impulso alle scompaginate file militanti, dapprima con "La Lotta Umana", pubblicata a Parigi insieme a Camillo Berneri, Ugo Fedeli, Gigi Damiani e Leonida Mastrodicasa, poi con "Studi Sociali", il definitivo testamento intellettuale, maturato nella ospitale Montevideo.
Come si è detto, Luigi Fabbri partecipò e animò i dibattiti politici che interessarono l'anarchismo nei primi decenni del secolo. E alcuni suoi contributi, per lucidità e chiarezza, rappresentano un importante lascito per la vita e l'elaborazione teorica dell'anarchismo contemporaneo. La sua opera di contrasto delle tendenze individualistiche, violentiste e superomiste che ebbero non poca fortuna in certi ambienti d'inizio Novecento, e che ancora si ritroveranno - e ritroviamo a volte - sui fogli libertari, rappresenta tuttora un contributo fondamentale per un'azione coerente con i presupposti solidaristici e libertari delle origini. Per comprendere l'efficacia e la solidità degli argomenti portati ad arginare questa deriva autoritaria, basta prendere in mano il suo Le influenze borghesi nell'anarchismo, opportunamente pubblicato di recente dalle Edizioni Zero in Condotta.
La sua concezione organizzativa, che lo vide fra gli artefici della nascita della prima organizzazione "unitaria" dell'anarchismo italiano, l'Unione Anarchica Italiana, resta tuttora a fondamento, nella concordanza con la lettera e l'opera malatestiana, dei principi e dei presupposti organizzativi della Federazione Anarchia Italiana. Esemplare fu, al proposito, il suo intervento nel dibattito innescato dalla pubblicazione, negli anni venti, della Piattaforma organizzativa di Piotr Arscinov. Come il confronto che, principalmente nel primo decennio del Novecento, trovò contrapposti chi vedeva in un sindacalismo sostanzialmente autosufficiente l'alternativa organizzativa al movimento specifico e chi, con Malatesta, valutava con maggiore obiettività, accanto ai pregi incontestabili, i limiti dell'azione sindacale. Rilevante, anche per la tragicità del momento, la sua intransigenza antimilitarista e antinazionalista quando l'Italia decise di entrare in guerra. Di fronte ai vergognosi ed equivoci cedimenti di un ambiente parolaio e volgarmente aggressivo, che aveva i suoi mentori nei vari Libero Tancredi, Maria Rygier e Mario Gioda, Luigi Fabbri non si lasciò demoralizzare dalla piega presa dagli avvenimenti, ma contrastò le esaltazioni guerrafondaie mascherate dietro l'avversione all'imperialismo austrotedesco. Su questo ha lasciato un diario straordinario - ancora inedito ma finalmente in via di pubblicazione - nel quale ripercorre con sconsolata lucidità la china bellicista nella quale scivolarono gli umori della società italiana.
Con lungimiranza, poi, riuscì a intravedere a quali risultati disastrosi per la libertà avrebbero portato i guasti morali e sociali fermentati nella guerra e nel militarismo. Fabbri fu, infatti, uno dei primi intellettuali a comprendere l'originalità e la specificità del fascismo, non accontentandosi della vulgata di un movimento al servizio di agrari e padroni, ma cogliendone gli aspetti rivoluzionari e oggettivamente innovativi. Individuando così, prima dei vari Gramsci e Salvemini, l'intrinseca pericolosità derivante dalla sua capacità di indirizzare in senso autoritario le dinamiche nate dallo sconquasso del conflitto mondiale. Altrettanta acutezza dimostrò nella analisi della rivoluzione bolscevica, quando, nonostante l'entusiasmo suscitato dalla rivoluzione proletaria che aveva sconfitto il capitalismo e l'autocrazia zarista, individuò le premesse che avrebbero prodotto, di lì a poco, l'involuzione autoritaria, burocratica e repressiva di quel grandioso movimento di popolo.
Questa capacità di cogliere l'essenza dei fenomeni che stavano rivoluzionando l'assetto politico e sociale di quei tempi, derivava dalla coerenza, etica ed ideologica, con la quale impostava i parametri della sua griglia interpretativa. Uno dei maggiori meriti di Luigi Fabbri fu, infatti, il richiamo ai principi forti, fondanti e antiautoritari dell'anarchismo. Principi non interpretati con inutile dogmatismo, ma utilizzati "opportunisticamente", per sfruttarne in modo esaustivo le potenzialità analitiche e speculative. E questa elaborazione teorica ed intellettuale apporta ancora i suoi frutti all'odierno movimento anarchico.
Ma Luigi Fabbri non fu solo un grande pensatore e intellettuale, ma anche una persona fuori dal comune, come fuori dal comune fu la figlia Luce, come sa chi ha potuto conoscerla. È stato recentemente pubblicato dalle Edizioni Serantini, il suo voluminoso epistolario curato da Roberto Giulianelli (Luigi Fabbri, Epistolario ai corrispondenti italiani ed esteri 1900 - 1935, Pisa, Bfs, 2005), scorrendo le cui pagine si può cogliere la ricchezza umana che lo fece apprezzare anche dagli avversari. Luigi Fabbri, infatti, affiancò sempre alla coerenza delle idee una grande disponibilità per gli interlocutori, che trattava con la stessa dignità che pretendeva per se stesso. E anche nei dibattiti più accesi, ai quali non si sottrasse e nei quali mai accondiscese a compromessi, mantenne la serenità d'animo necessaria a non farli trascendere nelle polemiche che, soprattutto negli anni seguiti all'avvento del fascismo, offuscarono pesantemente la vivacità del movimento. Questo atteggiamento, poco indagato ma così trasparente nelle pagine "private" dell'epistolario, fu altrettanto importante del suo apporto teorico, perché Fabbri, mantenendo il confronto sul piano delle idee, contribuì ad arginare gli effetti dirompenti delle derive personalistiche e umorali presenti anche in un movimento nel quale nessuno dovrebbe sentirsi "superiore". Cosa che quel "modesto" maestro elementare non fece mai.
Massimo Ortalli