Umanità Nova, numero 4 del 5 febbraio 2006, Anno 86
Nel leggere i giornali ogni tanto ci si imbatte in qualche racconto di violenza sessuale che ha come vittime donne, bambini, bambine. Il quadro descritto porta sempre ad evidenziare la violenza come opera di un maniaco, uno sconosciuto malato da sempre, o una persona vittima di un raptus.
A nessuno mai viene in mente di nominare il ruolo della famiglia: al massimo si vedono sconcertati ed affranti genitori cui ovviamente non si può imputare nulla.
Se però andiamo ad analizzare i dati sulla violenza sessuale (l'Organizzazione Mondiale della Sanità li ha diffusi recentemente, le organizzazioni di aiuto alle donne maltrattate e Amnesty International li aggiornano periodicamente) il quadro che si delinea è completamente diverso e ne risulta che circa nel 93 % dei casi la violenza è opera di un amico, un parente, un ex partner, comunque una persona vicina e conosciuta dalla vittima. Evidentemente la realtà non è come la televisione vuole mostrarcela e la famiglia non assomiglia a quella del mulino bianco.
E come in tutte le guerre esiste una guerra particolare contro le donne e gli stupri contro le donne, (civili, soldate o prigioniere), non sono casuali, ma preordinati e sostenuti nel nome dell'interesse dello stato, così quelli che avvengono tra le mura domestiche sono tollerati e perdonati in nome dell'interesse della famiglia.
Nelle guerre la donna, considerata responsabile dell'onore del proprio gruppo di appartenenza, viene colpita per terrorizzare e screditare l'intera comunità, aumentando il potere del gruppo aggressore.
Nelle famiglia viene colpita per diminuirne il valore in modo che lo stupratore senta accresciuto il proprio.
Facciamo ora parlare i dati, specificando che questi vengono forniti secondo tre modalità: statistiche giudiziarie (basate sui dati di violenza denunciati, ma solo il 10% dei casi viene denunciato), indagini statistiche e statistiche diffuse dai centri violenza e case per le donne. Difficile quindi avere un quadro preciso di questo arcipelago di violenza che sembra non avere un termine.
I dati ci dicono che la violenza rimane la prima causa di morte per le donne tra i 15 e i 44 anni di età.
Una donna su tre subisce violenza almeno una volta nella vita. Neppure le donne in gravidanza vengono risparmiate: per loro si registra una violenza del 25% e la violenza diventa la seconda causa di morte.
Le conseguenze non sono solo psichiche ma anche fisiche: forme gravi di dolori addominali cronici, irritazioni gravi dell'apparato genitale, del colon, cefalee, lombalgie croniche. Per non parlare di insonnia, stress, disturbi dell'alimentazione e dell'irritabilità.
Poiché la violenza viene subita nella stragrande maggioranza dei casi da persone in cui si è riposta fiducia, è molto difficile per le donne vittime di violenza sperare di essere credute: spesso si convincono di essere esse stesse responsabili dell'accaduto e non reagiscono né chiedono aiuto.
Talvolta vi è una, agli occhi di molti, incomprensibile difficoltà a rompere i rapporti di sopraffazione. Diventa un po' più facile però comprendere tale situazione se si tiene conto che le donne vittime di violenza sono donne che hanno subito maltrattamenti non solo fisici, ma anche psicologici, che hanno sviluppato una totale sfiducia nelle proprie capacità, intrappolate in relazioni coercitive e di controllo da parte del partner.
Aggiungo, e non do su questo alcun giudizio di valore, che le donne hanno in generale molta più difficoltà degli uomini a rompere i rapporti e talvolta li sostengono anche quando sono palesemente violenti, nella speranza di un impossibile cambiamento.
Accanto a questi dati, a cui si aggiungono anche quelli dell'OMS sulla violenza sui minori che registrano una situazione simile (violenza cioè da imputare per oltre il 60% dei casi a familiari o conoscenti), volevo riportare altri due fatti significativi che allargano la visione all'Europa e anche fuori di essa.
Recentemente è stata bocciata dal Parlamento Europeo una relazione dell'eurodeputata svedese Svensson che, in una indagine, dimostrava la discriminazione a sfavore delle donne nei paesi dell'UE nell'erogazione di cure mediche. Dimostrava che in alcune malattie, ugualmente diffuse tra uomini e donne, gli uomini ricevevano il doppio di terapie rispetto alle donne e che se le donne fossero curate con la stessa intensità degli uomini le spese per le cure che le riguardano aumenterebbero del 61%. Inoltre, nonostante le donne consumino più medicinali degli uomini, sono questi ultimi il punto di riferimento per la ricerca medica e lo sviluppo di nuovi farmaci.
Un altro esempio riportato era quello legato ai disturbi alimentari, sempre più diffusi tra le donne, soprattutto molto giovani. La relazione riportava la necessità, quasi totalmente ignorata perché gli studi in proposito sono rari, di analizzare la correlazione tra tali disturbi e le violenze o gli abusi subiti in famiglia.
La relazione invitava anche a predisporre piani di aiuto economico per le donne anziane, considerando che oggi vivono in Europa 120 milioni di donne in condizioni di povertà con difficoltà a essere curate in modo adatto.
La bocciatura di tale relazione, tra l'altro approvata invece in commissione con solo 2 contrari, con 173 sì, 244 no e addirittura 144 astensioni indica un non volontà di riconoscere che in Europa esiste una discriminazione non solo economica e di classe ma anche di genere.
Ultima perla per allargare gli orizzonti: l'Associazione delle Donne Democratiche Iraniane in Italia denuncia che dopo le elezioni di giugno in Iran la condizione delle donne è notevolmente peggiorata.
È stato annunciato che le donne "malvelate" saranno frustate immediatamente. Enormi tabelloni ricordano che in caso di violazione sul codice di abbigliamento le donne potranno ricevere fino a 100 frustate in pubblico. Le donne i cui capelli non siano correttamente coperti rischiano da 10 giorni a 10 mesi di prigione.
Insomma ognuna ha i suoi guai... Ma cosa è possibile fare per diminuirli?
Sicuramente partire dall'idea che la violenza riguarda tutti, che non è possibile non intervenire in nome di un inesistente "rispetto" per la sensibilità della vittima o poiché ci sentiamo incapaci ed inadatti. Se anche è normale sentirsi impotenti o scoraggiati per il fatto di non riuscire ad arginare la violenza, sarà solo prendendone veramente coscienza e carico che potremo eliminarla.
R. P.