Umanità Nova, numero 5 del 12 febbraio 2006, Anno 86
La carità di dio è l'ingerenza della chiesa
Nel caso di Ratzinger parlare di "prima enciclica" rischia di essere riduttivo. Il suo magistero, infatti, è assolutamente in linea con il percorso di revisione in chiave conservatrice del Concilio Vaticano II intrapreso da papa Wojityla, di cui Benedetto XVI è stato ispiratore, sostenitore e amico. Inoltre i documenti pubblicati da Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede hanno avuto un'importanza decisiva per le sorti della teologia contemporanea e per la stessa prassi didattica dei teologi cattolici. Se quindi questo documento può vantare il crisma dell'infallibilità, non meno infallibile è stato il santo padre nel bloccare, attraverso documenti non pubblicizzati come questo, la libertà di ricerca e di insegnamento nelle facoltà pontificie e nei seminari del mondo intero.
Obiettivo dell'enciclica è quello di analizzare le modalità dell'amore di dio nei confronti degli uomini e, nello stesso tempo, chiarire quali debbano essere i comportamenti che gli esseri umani devono tenere per essere immagine di quell'amore.
Il documento è diviso in due parti. La prima, di carattere
più teorico, chiarisce la concezione cattolica dell'amore,
mentre la seconda dovrebbe mettere in luce le modalità
attraverso le quali la chiesa sperimenta e testimonia l'amore divino.
Prima parte: l'unità dell'amore nella creazione e nella storia della salvezza
L'argomentazione parte da un'analisi del termine amore nel mondo pre-cristiano e nella Bibbia.
La parola amore viene tradotta nel Nuovo Testamento con il termine agape, che esprime il senso di condivisione che si presume fosse sperimentato nelle prime comunità cristiane.
Per i filosofi greci l'amore era distinguibile in eros, desiderio del bene sensibile, ma anche di ogni altro oggetto degno di attaccamento, philia, cura dell'uomo, dell'amico e della patria e agape. L'agape contemplava sia la dimensione dell'eros che quella della philia, con un'apertura concettuale all'accoglienza e alla fraternità.
Nel vocabolario greco troviamo anche parole derivate da agape, come agapètikos (tenero, affettuoso) e "agapèsis (affetto, tenerezza).
Quindi già nel significato pre-cristiano la parola agape aveva un'accezione comunitaria ed esprimeva l'amore in quanto tenerezza e attenzione.
I primi traduttori dall'ebreo al greco degli scritti biblici hanno privilegiato il termine agape per tradurre la complessità dei significati della parola amore, probabilmente perché eros aveva una connotazione troppo carnale e philia, impiegata solo raramente, indicava un amore soltanto umano.
Fin dall'inizio della storia cristiana vediamo come si sia operata, quindi, una riduzione della complessità dei significati della parola amore, con una semplificazione anche terminologica che non rende ragione della realtà del vissuto emotivo ed esperienziale di ogni essere umano. Se da una parte Ratzinger prova a ridare legittimità all'erotismo, intravedendo nell'amore di dio per l'uomo l'unione completa di eros e agape, di fatto questa tensione alla frammentazione dei concetti e dei vissuti attraversa, come eredità chiara della negazione operata già a livello linguistico nelle stesure greche del nuovo testamento, la prima parte dell'enciclica del papa.
Nonostante gli sforzi filosofici del pontefice, la necessità di istituzionalizzare l'unione tra uomini e donne all'interno del matrimonio costringe di fatto Ratzinger a sposare un radicale dualismo giustificato e confermato attraverso l'uso reiterato di enunciati assiomatici.
La necessità di rappresentare l'amore divino come unione di agape ed eros è figlia dell'unica antropologia teologica possibile, quella che interpreta l'uomo come unità di anima e corpo.
Il termine unità non deve ingannare: parlare di corpo e anima è un po' come parlare di mente e cervello. La mente è possibile solo perché c'è il cervello, e si deteriora al deteriorarsi di questo. La mente è nel cervello e muore con lui. L'anima invece, secondo le fantasie di mistici e teologi, precede il corpo, gli sopravvive e ha necessità che nulla hanno a che fare con il metabolismo corporeo.
Inoltre l'anima è un puro oggetto di fede, quindi può
essere un "termine contenitore", al quale far giocare il ruolo che
più fa comodo.
Affermare, allora, l'unità di corpo e anima non è altro
che un artificio metafisico per mascherare il dualismo che affligge
inevitabilmente ogni antropologia religiosa, e che spinge i teologi ad
effettuare quelle operazioni di parcellizzazione dei significati alle
quali segue sempre la negazione di alcuni di questi e
l'assolutizzazione di altri (bene/male; amore/sesso; luce/tenebra;
ecc.).
Per questo motivo, dopo aver tentato di disciplinare l'eros confinandolo all'interno del matrimonio, il pontefice è costretto a lacerare ulteriormente il significato dell'amore umano che, purtroppo, non sempre riesce ad esprimersi con quell'intensità, unicità e definitività che tanto gli stanno a cuore.
Nello scritto di Ratzinger, infatti, si mette in evidenza come l'amore tra uomo e donna sia immagine di quello che Dio nutre per tutti gli esseri umani e che si esprime nelle forme di un amore di donazione che accetta anche il sacrificio estremo della morte di croce affinché l'uomo sia salvato.
La morte di Cristo, infatti, è l'atto che maggiormente dovrebbe mostrare all'uomo cosa significhi amare: atto totale, definitivo, attraverso il quale si manifesta il bisogno di eternità di ogni persona.
Noi tutti, però, umani troppo umani come siamo, abbiamo esperienza di come l'amore sia un sentimento non sempre destinato a resistere nel tempo. L'amore c'è nel momento in cui lo si prova, ma non si può voler amare.
Quindi la pretesa che l'amore si esprima solo all'interno del matrimonio nella sua totalità di eros e agape sembra non tener conto proprio della natura emotivamente complessa di questo sentimento, che nasce e finisce secondo modalità non chiare e poco controllabili. Si può essere sinceri nel momento in cui si afferma di amare qualcuno, ma sicuramente non lo si è quando si promette l'amore eterno: in realtà non sappiamo quanto i nostri sentimenti possano durare, né perché siano nati.
Per Ratzinger, però, l'amore non può essere solo sentimento perché, appunto, "i sentimenti vanno e vengono", ma l'amore è dato da una unione di sentimento, volontà e intelletto. "Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore".
Proprio in queste argomentazioni il dualismo, che si era cercato di cacciare dalla porta, rientra dalla finestra.
Non mi sembra infatti che sia possibile un amore senza volontà e intelletto, anche se la passione (soprattutto, da quello che mi dicono, nella collana di libri della Harmony) sembra spesso capace di spingere gli esseri umani a scelte irrazionali; sicuramente, però, l'amore non può esistere senza sentimento. Quindi non è possibile immaginare l'amore come risultante di tre componenti discrete. Un amore senza sentimento a cosa dovrebbe affidarsi? Alla volontà di amare? All'imporre a se stessi l'amore per una persona che, nei giorni, ci è divenuta estranea?
Si pretende allora di far esprimere una dimensione come l'amore, che di per sé può durare come non durare per l'intera vita di una persona, esclusivamente all'interno di un istituto giuridico, il matrimonio, che la chiesa vuole efficace vita natural durante, e per sanare questa contraddizione si pretende che l'amore non sia solo sentimento o, peggio, che possa esistere anche quando il sentimento non c'è più, magari sostituito da una più sana e meno erotica philia tra coniugi.
La trama sociale disegnata dalla filosofia papale appare dunque chiara: l'amore deve adeguarsi agli istituti, non può esistere senza di loro e, anche se svuotato di senso e pallida ombra di quello che dovrebbe essere l'amore tra uomo e donna, deve essere tenuto in vita artificialmente, perché la forma catto-borghese della società, basata su un'idea monolitica di comunità d'amore, non venga messa in discussione.
Saremmo costretti, dunque, a stare insieme anche senza sentimento, anche senza amore. O, meglio, nel caso in cui ci accorgessimo di non provare più sentimento verso un nostro partner, dovremmo accontentarci, secondo quanto il papa lascia intendere, di un amore monco, deprivato della componente sentimentale, ma sostituito dalla volontà di mantenere in vita un istituto sociale.
La chiesa ci appare in questa prima parte dell'enciclica poco
maestra d'amore umano, ma sicuramente esperta nella pratica, per lei
annosa, del controllo sociale. Le istituzioni, per come la chiesa
cattolica le descrive, sono più forti delle persone e il
matrimonio è una catena che non può essere spezzata, in
nome di un amore che deve a tutti i costi esistere, in nome di una
coesione sociale che si nutre della libertà dei singoli
individui.
Extra ecclesia nulla salus
L'enciclica ha un incipit tratto dalla prima lettera di Giovanni, apparentemente illuminato e avanzato, che sembra quasi destinato a coinvolgere tutto e tutti: "dio è amore; chi sta nell'amore dimora in dio e dio dimora in lui" e invece procede con una ricostruzione della parola amore che finisce per escludere tutti coloro che non appartengono alla comunità di dio e che non vivono l'amore secondo le direttive papali. L'idea che si ricava dalla lettura dell'enciclica è che per la curia romana, in fondo in fondo, sia sempre valido l'antico adagio: extra ecclesia nulla salus, fuori dalla chiesa, e dall'istituzionalizzazione forzata che la sua morale comporta, non c'è salvezza per nessuno, perché la pienezza dell'amore è possibile solo nella sequela di Cristo che, dal battesimo al funerale, va vissuta nella parrocchia di appartenenza.
Ratzinger in questo è criptico, ma deciso: la forza del vangelo coincide con la forza della chiesa di Roma; ma questo è esattamente il motivo per cui l'irrazionalità legata all'atto di fede nutre sempre, con il proprio consenso, la razionalità del progetto di dominio delle istituzioni di potere.
Paolo Iervese