Umanità Nova, numero 6 del 19 febbraio 2006, Anno 86
La direttiva Bolkestein è arrivata ad un passaggio cruciale. Il 16 febbraio è previsto il voto dell'Europarlamento al termine del percorso di prima lettura della contestatissima direttiva comunitaria, proposta oltre due anni fa dalla Commissione presieduta da Prodi. Dopo il voto, il progetto verrà trasmesso al Consiglio d'Europa, vagliato da ministri e Commissione, infine tornerà all'Europarlamento per il voto finale, tra circa un annetto. Vale la pena fare il punto della situazione e capire in quale contesto si colloca la direttiva Bolkestein, riveduta e corretta.
Come tutti sicuramente ricordano, il punto più contestato della direttiva era l'art. 16, laddove si stabiliva il principio del "paese d'origine" per la prestazione di servizi, da parte di un'impresa, al di fuori del paese di appartenenza. In pratica, qualunque impresa di servizi (in particolare quelle dei paesi dell'est europeo appena entrati in Europa) poteva fornire prestazioni negli altri paesi della comunità, applicando ai propri lavoratori le normative, i salari e gli orari del proprio paese. Viceversa, qualunque impresa (in particolare quelle dell'ovest "avanzato") poteva avvalersi dei servizi sottocosto di imprese localizzate in altri paesi dell'Unione. Si trattava di una grande legalizzazione di "dumping sociale", con la possibilità concreta di scatenare una forte concorrenza sleale, in grado di minare la tenuta del "modello sociale europeo".
Il principio del paese d'origine è stato abolito e sostituito da un più vago "principio di liberalizzazione dei servizi" all'interno della Comunità Europea, che lascerà spazio a differenti interpretazioni "nazionali" sul suo utilizzo e sulla sua applicabilità. Il nuovo articolo 16 stabilisce che "uno Stato membro dovrà assicurare libero accesso ed esercizio di un'attività di servizio sul suo territorio", ma potrà sottoporla a vincoli, purché rispettino i principi di non discriminazione, proporzionalità e necessità (sicurezza pubblica, protezione della salute e dell'ambiente). Non si potrà imporre alle imprese di avere una sede nel Paese di attività, ottenere un'autorizzazione o documenti di identità, sottostare a limiti di utilizzo di materiali e macchinari. Si potranno invece imporre condizioni alla prestazione di servizi per ragioni di sicurezza pubblica, politica sociale, protezione dei consumatori, ambiente e salute pubblica. Ogni singolo stato nazionale potrà quindi imporre alle aziende estere che opereranno sul proprio territorio l'applicazione della normativa sul lavoro, compresa quella sulla contrattazione collettiva.
L'effetto di questa modifica dell'impianto originario della direttiva è piuttosto controverso. Secondo la posizione dei padroni, la Bolkestein risulta annacquata e stravolta, incapace di garantire i risultati auspicati in termini di competitività e concorrenza. Le associazioni padronali giudicano troppo chiuso e protetto il settore dei servizi e ritengono che l'attuale normativa "sequestri" il 70% del Pil dell'Unione Europea, impedendo una reale concorrenza che spinga verso il basso la struttura dei costi. Da qui l'accusa di bassa competitività del sistema produttivo europeo, nei confronti dei concorrenti americani o asiatici. Secondo la posizione dei partiti riformisti, dei sindacati istituzionali, della sinistra moderata, invece, la modifica della Bolkestein è sufficiente a farla considerare accettabile, perché coniugherebbe la difesa dei diritti con lo svecchiamento delle strutture burocratiche. L'opposizione sociale è molto più critica: il rischio di ritornare al principio del paese d'origine non sarebbe del tutto sventato e la vaghezza del nuovo impianto lascerebbe ampi margini di discrezionalità per i governi nazionali, che potrebbero riempire i vuoti della normativa a proprio piacimento. Per le organizzazioni sindacali di base occorre battersi per un ritiro totale della direttiva e le manifestazioni che sono state indette a Strasburgo, in coincidenza con la discussione all'Europarlamento, vanno in questa direzione.
In realtà per valutare appieno i termini della questione occorre partire dalla vasta opposizione che la Bolkestein ha sollevato in modo spesso trasversale al sistema politico ed allo schieramento dei partiti. L'attuale compromesso nasce dalla convergenza, nell'Europarlamento, tra partiti socialisti e popolari, intendendo ovviamente queste definizioni in forma ampia (i popolari comprendono per esempio Forza Italia, i socialisti includono i Ds, ecc.). Tra i più accesi oppositori della direttiva ci sono pezzi importanti della destra sociale, come A.N., gli euroscettici, le corporazioni professionali che certo non possono essere tacciate di estremismo e così via. La Bolkestein è stata una delle principali cause del fallimento del referendum francese sulla costituzione europea. Gli stessi proponenti e sostenitori della direttiva (con in prima fila l'ala liberal che si annida nei partiti "socialisti" come Ds e Spd) si sono resi conto che la propria linea era probabilmente troppo "avanti" rispetto ai tempi di maturazione del sistema socio-economico. Ne è uscita una soluzione di compromesso, che tenta di far convivere il tradizionale modello europeo di coesione sociale, con la necessità di modernizzare il sistema dei servizi ed abbassare il costo di funzionamento del sistema.
È interessante notare come questo andamento "stop and go" caratterizzi tutte le scelte strategiche dei governi europei e l'andatura complessiva del processo di smantellamento del welfare. L'approccio graduale viene sempre privilegiato, anche da coalizioni di diverso colore politico. Il centro-destra italiano manovra sulle pensioni, ma con decorrenza 2008 sia per l'allungamento dell'età che per il decollo della previdenza integrativa. La coalizione tedesca Cdu-Csu-Spd sceglie di allungare a 67 anni l'età per la pensione, ma con decorrenza 2012 e a regime dal 2029; intanto alza le tasse e fa salire la tensione sociale, con sindacati che chiedono il 5% di aumento salariale e padroni che offrono l'1,2%; il governo chiede anche un allungamento di orario dei dipendenti pubblici, sotto il ricatto di tagli ai posti di lavoro. In Francia il governo Villepin introduce il Cep, una legge che permette di assumere i giovani sotto i 26 anni e di farli lavorare 2 anni in prova, con la possibilità di licenziarli senza giusta causa al termine del biennio; la sinistra francese scende in piazza insieme ai sindacati per respingere il provvedimento. Invece in Italia la legge 30 non viene più attaccata frontalmente dalla sinistra, adesso che si crede vicina alla vittoria elettorale, perché non si può disfare tutto ciò che ha fatto Berlusconi e bisogna tenersi buona la Confindustria per potersi dimostrare affidabili.
Lo stesso provvedimento può dunque essere visto con luce diversa, a seconda di chi l'ha proposto per primo e del ruolo che si è costretti a coprire. La Bolkestein in Italia era un tabù in quanto associata alla Commissione presieduta da Prodi, ma ora che il personaggio riveste un altro ruolo, se ne può parlare.
La nuova versione della Bolkestein si presta in effetti ad un uso più elastico. Un'azienda polacca che decidesse di vendere in Francia i propri servizi, per restare ad un esempio famoso, dovrebbe applicare ai propri dipendenti salari ed orari francesi, mentre potrebbe pagare i contributi previdenziali previsti in Polonia. Se però il famoso plombier polonaise arrivasse a Parigi come lavoratore autonomo, potrebbe applicare la tariffa che vuole. Da qui la paura che molti dipendenti vengano camuffati da lavoratori autonomi, a progetto, co.co.co, ecc. per abbattere le barriere all'entrata ed aggirare per questa via le tutele normativa previste.
Del resto un altro importante tassello sta per cadere: l'autorizzazione all'ingresso di lavoratori provenienti dai paesi appena inclusi. Nel 2004 al momento dell'entrata dei 10 nuovi paesi nell'Unione i vecchi paesi membri ebbero la possibilità di bloccare per i primi due anni l'ingresso di lavoratori nel proprio territorio. Soltanto tre paesi rinunciarono a questa clausola ed hanno visto entrare, in questo biennio, un certo numero di ossis: Gran Bretagna (220.000), Irlanda (160.000) e Svezia (6.000). Adesso i vecchi paesi membri possono prorogare di altri tre anni questo blocco e lo faranno tutti, meno due: Spagna e Finlandia. Il flusso di questi ingressi si è rivelato meno copioso del previsto, per vari motivi: l'economia dei paesi "storici" è certo meno brillante, a livello di crescita, dei nuovi entranti; le nicchie riservate ai lavoratori dell'est sono sempre le più dequalificate e mal pagate; la registrazione dei lavoratori è spesso solo una sanatoria di precedenti situazioni clandestine. L'apertura dei mercati del lavoro non è stata quindi così traumatica come si pensava, mentre addirittura settori del padronato continuano a lamentare carenza di manodopera in alcuni settori (ad esempio la Confindustria tedesca segnala 750.000 posti di lavoro vuoti, in un paese con 5 milioni di disoccupati).
Le contraddizioni sul lavoro migrante non interessano anche la sinistra che vive al proprio interno la dicotomia tra una generica rivendicazione di libertà di movimento per tutte le persone ed i lavoratori attraverso le frontiere (per sfuggire alla miseria, alla fame, alle guerre), e la consapevolezza che un flusso incontrollato di manodopera a basso o bassissimo costo finirebbe per mettere in serie difficoltà il segmento più debole della propria base. La pressione sui salari e l'indebolimento contrattuale derivante da una estensione troppo rapida dell'"esercito industriale di riserva" non potrebbero che aumentare un livello di precarizzazione sociale già molto avanzato.
Da qui lo sforzo di dare ogni tanto qualche colpo di freno e candidarsi come forza ragionevole per un governo dei processi: da una parte flussi regolati per venire incontro alle esigenze produttive delle aziende, dall'altra progetti di integrazione per calmierare il livello di insicurezza sociale portato dai "nuovi italiani".
Per le forze d'opposizione, i sindacati di base si tratta di una autentica sfida a costruire nuovi insediamenti sociali. Molti esempi storici possono venirci in soccorso: basti pensare all'unionismo industriale americano dei primi anni del '900, alla saldatura tra vecchi e nuovi operai della Fiat negli anni '60, alle lotte degli operai maghrebini alla Peugeot e alla Renault, o ai lavoratori turchi in Germania negli anni '70 e '80. Battersi contro la Bolkestein significa questo: difendere i propri diritti come lavoratori organizzati e rivendicare gli stessi diritti per i migranti, i nostri nuovi compagni di sfruttamento.
Renato Strumia