Umanità Nova, numero 6 del 19 febbraio 2006, Anno 86
Il recente provvedimento legislativo che equipara in Italia l'uso e la detenzione delle droghe leggere al consumo di quelle pesanti è l'ultimo atto della strategia di (ri)fascistizzazione del paese operata dal governo di Centrodestra.
Il filo conduttore dell'operato del governo in questa legislatura può essere identificato nell'uso sistematico della proibizione assurta al rango di ambito permanente in cui ciascuno di noi deve muoversi.
A tutti i livelli e con sfumature più o meno gravi a seconda delle materie oggetto delle normative varate, la cultura del divieto e del proibizionismo più o meno fine a se stesso ha prevalso su ogni altra considerazione.
La visione fortemente autoritaria dei rapporti sociali di cui è portatrice la destra di governo recupera in tutto e per tutto l'armamentario ideologico del fascismo, a dimostrazione del fatto che certi soggetti non hanno mai smesso i lugubri panni della reazione.
La proibizione del comportamento deviante ha una duplice funzione:
tecnica e culturale. Tecnicamente vengono creati tutti gli strumenti
per sanzionare il più possibile ciò che viene ritenuto
pericoloso o comunque asimmetrico agli equilibri di ordine e disciplina
voluti da chi è al potere. Culturalmente, la proibizione
cristallizzata nella legge serve a criminalizzare pratiche e
comportamenti non conformi. Tale conformità può essere
ispirata sia all'interesse materiale delle classi dominanti, sia alla
finalità etica e pedagogica che si vuole perseguire.
L'etica della proibizione tradisce il senso di colpa tipico della cultura cristiana, specificamente cattolica, di cui i fascisti post-moderni continuano a essere fautori. Questa etica si è espressa negli ultimi tempi attraverso, per esempio, la legge contro il fumo nei locali pubblici, la legge che inasprisce le pene per il consumo di droga, la legge Bossi-Fini sull'immigrazione, la proibizione alla sperimentazione della pillola abortiva e le contestuali proposte di modifica se non addirittura eliminazione del diritto all'aborto, la netta chiusura a qualsiasi ipotesi di amnistia o depenalizzazione dei reati comuni, ecc...
Inutile soffermarsi sulla semplice constatazione che ogni approccio proibizionista non può che giovare agli interessi di chi sfrutta gli ampi margini di illiceità ai quali è condannato un comportamento o uno status sociale: ad esempio, l'immigrato al quale è proibito l'accesso in Italia è costretto alla clandestinità e, vivendo in questa condizione, non può rivendicare diritti di alcun tipo dovendo accettare ogni tipo di sfruttamento umano e/o economico.
Allo stesso modo, se la droga non fosse così proibita le mafie di ogni genere non ne controllerebbero il mercato con tutte le conseguenze che ne derivano.
Più in generale, aumentare le fattispecie di reati è il modo migliore per riempire ulteriormente le carceri di gente sempre più indifesa e vulnerabile alle maglie di una repressione ormai capillare.
La proibizione fallisce sistematicamente gli obiettivi palesi per i quali viene imposta: vorrebbe creare ordine, vorrebbe disciplinare gli eventi ma ottiene solo caos, speculazione, malaffare e sfruttamento. Ma nulla è lasciato al caso: la proibizione è funzionale a che i più forti possano sempre farla franca calpestando i diritti di chi non può difendersi in una giungla chiamata Stato.
Poco da aggiungere: siamo sempre più convinti che una ventata di sana, liberatoria e libertaria Anarchia sarebbe il toccasana più indicato per guarire da questo dilagante morbo dell'autoritarismo.
TAZ laboratorio di comunicazione libertaria