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Umanità Nova, numero 7 del 26 febbraio 2006, Anno 86

Afganistan
Puzzle di guerra


Leggete leggete e dichiarate problemi
e divorate intanto cibi di dubbio.
Spiegate una cosa, e un'altra a noi fate dire:
di dentro, tutti frode, e, fuori, fate i sinceri.
(Bulhe Sciah, poeta pangiabi, sec. XVII)


L'Afganistan sta diventando un non-luogo del presente.

La guerra iniziata nel 2001, dopo l'attacco dell'11 settembre, dalla coalizione "antiterrorismo" sotto la guida strategica del governo Usa non è mai finita, così come l'occupazione militare continua a dover fare i conti con un territorio di cui nessuno nella storia è mai riuscito a impadronirsi. Dal 2002 gli scontri, gli attentati e le manifestazioni ostili all'occupazione sono continuamente aumentati, tanto che è diffusa convinzione che ormai non sono le truppe Usa a dare la caccia ai terroristi, ma il contrario.

Infatti le forze d'occupazione Usa stanno ricalcando la strada fallimentare dell'Armata Rossa negli anni Ottanta. A differenza degli occupanti russi, quelli dello Zio Sam compensano il minore impiego di truppe e mezzi tessendo disinvolti accordi coi signori della guerra e del narcotraffico, nonché attraverso ingenti risorse economiche, gestite da agenzie governative e d'intelligence, con le quali si garantiscono a suon di dollari il supporto indispensabile.

Eppure l'Afganistan non esiste, se non del tutto occasionalmente, nelle cronache giornalistiche, nei resoconti televisivi e neanche nelle mobilitazioni di quella parte di società civile che si oppone alla guerra. (*)

Bisogna infatti cercare minuziosamente nell'informazione ufficiale, giorno per giorno, per rendersi conto che siamo di fronte ad un conflitto che non si può certo definire a bassa intensità, come testimoniano quotidianamente le notizie d'agenzia: 2 febbraio, tre soldati afgani e due civili uccisi in un attentato suicida a Khost; 4 febbraio, una trentina di morti in combattimenti tra guerriglieri talebani e forze governative nelle province di Helmand e Kandahar, tra le vittime anche un governatore di distretto; 6 febbraio, cinque dimostranti afgani morti durante manifestazione contro base Usa; 7 febbraio, quattro armati afgani caduti in attacco contro base Isaf a Meymaneh mentre tredici persone sono rimaste vittime di un attentato contro il quartier generale della polizia a Kandahar; 10 febbraio, otto soldati governativi uccisi e feriti quattro soldati canadesi nella zona di Kandahar, morto anche un militare Usa in un imprecisato incidente; 13 febbraio, almeno quattro soldati Usa uccisi in attentato contro convoglio nella provincia di Uruzgan e due miliziani collaborazionisti uccisi nella provincia di Helmand...

Le stesse forze armate Usa registrano un numero di perdite in Afganistan percentualmente superiore a quello riportato in Iraq. Per questo, da tempo è in atto un passaggio di consegne che vede il crescente ruolo della missione militare Isaf - dall'agosto 2003 a guida Nato - e la conseguente crescita dei contingenti, in particolare europei, dell'Alleanza Atlantica. Infatti, mentre le truppe Usa da 19 mila unità stanno riducendosi a circa 16 mila, in questi mesi è andato aumentando il dispiegamento di militari britannici, italiani, olandesi, svedesi, spagnoli, canadesi, australiani, mentre contestualmente vengono ridotte le rispettive presenze in Iraq. Rilevante soprattutto l'impegno preso da Blair con Bush di inviare altri 3.300 militari in Afganistan all'inizio della primavera 2006 che faranno giungere a circa 5.700 il numero complessivo dei soldati di Sua Maestà impegnati in Afganistan, divenendo la vera forza decisiva sul campo.

Nonostante molte titubanze politiche interne, la Nato, da parte sua, sta infatti estendendo progressivamente la sua area d'intervento al sud-est del paese, ossia alle zone più critiche da un punto di vista dell'attività di guerriglia filotalebana, attraverso il lavoro di penetrazione assegnato ai Provincial Reconstruction Teams (PRT) proiettati nelle diverse province nel tentativo vano di prendere il controllo, pezzo dopo pezzo, di un puzzle di 653 mila impervi e rischiosi chilometri quadri. Lo stesso capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, ha annunciato che tutte le forze "di pace" in Afganistan saranno trasferite sotto l'ombrello Nato e, entro marzo, i primi 2.500 soldati Usa lasceranno le province di Kandahar, Uruzgan, Helmand e Zabul, vale a dire le enclavi talebane dove nel 2005 l'attività della guerriglia è stata più aggressiva – costando la vita ad almeno 100 soldati Usa, 30 soldati Isaf, 450 soldati afgani, nonché oltre 300 civili e forse un migliaio di combattenti talebani. In tal modo le restanti truppe Usa di "Enduring Freedom", con base principale a Bagram, si dedicherebbero ad operazioni speciali come la caccia ai fantasmi di Al Qaeda. 

I compiti assegnati alla Nato sono di evidente carattere offensivo, come confermato senza tanti giri di parole dal colonnello canadese S. J. Bowes: "questa non sarà una missione di pace: siamo coscienti che laggiù dovremo affrontare un'insurrezione armata".

Per quanto riguarda l'intervento militare italiano, nel contesto Isaf-Nato, questo risulta essere per numero secondo solo a quello britannico, con circa 1.700 effettivi dislocati a Kabul e 350 a Herat  nell'ambito del PRT a guida italiana. Inoltre, come è noto, sino ad aprile il comando dell'intera missione Isaf è affidato proprio all'Italia.
Tale rafforzamento del ruolo dell'interventismo tricolore sta andando di pari passo col graduale disimpegno delle truppe italiane in Iraq, possibile grazie anche una sostanziale intesa trasversale tra centro-destra e centro-sinistra che sicuramente è destinata a durare qualunque sia il governo che uscirà dalle prossime elezioni politiche, dato che, con l'alibi della missione umanitaria sotto la pseudocopertura dalla risoluzione Onu n.1386 del 2001, lo stesso Prodi ha decisamente confermato l'indirizzo dell'Unione a mantenere le truppe italiane in Afganistan, senza se e senza ma.

U.F.


(*) Come testimonia l'assenza persino nominale dell'Afganistan sia nel manifesto della giornata contro la guerra del 18 marzo, indetta dal Forum Sociale Europeo, ma anche in quello della manifestazione in solidarietà con le resistenze palestinese e irachena tenutasi a Roma il 18 febbraio.

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