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Umanità Nova, numero 8 del 5 marzo 2006, Anno 86

La chimera del diritto di asilo
Malpensa camp


La storia dei rifugiati accampati all'interno dell'aeroporto Malpensa di Milano perché impossibilitati a trovare un alloggio disponibile in attesa del responso alla loro domanda di asilo, è una di quelle storie che sembrano uscite da una pellicola cinematografica. In effetti, "The terminal" è un buon film (che parla di frontiere e libertà di circolazione) in cui il protagonista è costretto a vivere in aeroporto per problemi burocratici e perché nel suo paese di origine è scoppiato un colpo di stato.

Come spesso avviene in questo mondo che sembra essersi modellato irrimediabilmente sulla più inquietante letteratura fantapolitica, la realtà supera la fantasia e l'incubo in cui vivono i richiedenti asilo in Italia è una condizione concreta e generalizzata. La vicenda dei rifugiati di Malpensa è tristemente simile a quella dei rifugiati sgomberati dallo stabile di via Lecco a Milano, successivamente espulsi e deportati dalla Svizzera perché avevano osato portare la loro battaglia a Ginevra, patria della Convenzione che dovrebbe tutelare i loro diritti. Come non ricordare, in tal senso, la storia della nave Cap Anamur e dei suoi profughi lasciati in mare a poche miglia dalla costa siciliana e successivamente deportati nel CPT di Agrigento?

Tutte vicende che ripropongono drammaticamente la condizione in cui versa una tipologia "particolare" di immigrato, quella del richiedente asilo ovvero chi fugge dal proprio paese per i motivi più diversi: guerra, persecuzione politica, discriminazione religiosa, ecc. La costituzione della repubblica italiana, all'articolo 10, garantisce esplicitamente il "diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge" allo straniero "al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana". Peccato che in Italia una legge organica sul diritto d'asilo non c'è.

Ed è per questo che la Bossi-Fini è l'unico riferimento normativo per la gestione di migliaia di domande che il più delle volte vengono respinte dopo che il richiedente asilo viene abbandonato a se stesso in attesa del responso trovandosi così in una condizione pratica che lo espone in tutto e per tutto agli stessi rischi e alla stessa precarietà di chi è giuridicamente irregolare. Esistono però i Centri di identificazione, strutture preposte all'accoglienza dei richiedenti asilo, la cui gestione coincide quasi sempre con quella di chi gestisce i CPT e che, ancor più spesso, sono ricavati nel medesimo perimetro del Centro di Permanenza Temporanea. Se a tutto questo si aggiunge che vi è una certa discrezionalità prefettizia nella loro gestione si comprende bene che, in Italia, CPT e Centri di identificazione sono praticamente la stessa cosa: campi di internamento.

Incredibilmente, in caso di diniego della richiesta di asilo e contestuale volontà del richiedente di ricorrere in giudizio, la legge italiana prevede che il ricorrente possa comunque essere allontanato dal territorio italiano durante la fase del ricorso vanificando così il ricorso stesso! Ed è così che la persona viene rispedita addirittura nel paese di origine, che in questo caso significa il paese di asserita persecuzione. 

La criminalità dell'ordinamento che si concretizza quotidianamente con l'esistenza dei CPT e con la vergognosa pratica delle deportazioni, non può che legittimare il lassismo istituzionale con cui vengono affrontati i casi specifici come quelli di Malpensa e Via Lecco che hanno la "fortuna" di finire sotto i riflettori dei media, ma che costituiscono solo la punta dell'iceberg.

A parere di chi scrive, la distinzione tra immigrato "ordinario" e richiedente asilo è una distinzione fittizia. Tra analisti, giuristi e operatori sociali si fa sempre più largo l'idea che le ragioni del migrante "economico" (chi emigra semplicemente per cercare lavoro) non sono poi così distanti da quelle del rifugiato che scappa da una guerra civile o che fugge da una personale persecuzione di carattere politico o più generalmente discriminatorio. La decisione di emigrare anche solo per motivi di sussistenza ha la sua radice nel bisogno, un bisogno indotto da condizioni di precarietà sociale e disagio che sono comuni a quelle di chi, ad esempio, non gode delle libertà civili in un paese devastato da un conflitto.

Superare questa discriminazione giuridica in termini non già di limitazione delle tutele ma di allargamento delle stesse, dovrebbe essere il primo passo per affrontare seriamente la questione. E questo, dal punto di vista degli stati, è semplicemente impossibile perché sono gli stati che dichiarano le guerre, sono gli stati che massacrano le persone, sono gli stati che mettono le frontiere, sono gli stati che sulla carta garantiscono i diritti e poi li annientano giorno per giorno. Da sempre.

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