Umanità Nova, numero 8 del 5 marzo 2006, Anno 86
A volte si seguono le notizie riguardanti un certo argomento e succede che una strana intuizione irrompa improvvisamente nel magma dei pensieri. Dico strana perché, apparentemente, questa intuizione non risulta essere inserita in un ragionamento organico. Nelle riflessioni e nelle discussioni che seguono, evitando di costruire attorno all'intuizione iniziale un contesto puramente funzionale a giustificarla, può poi emergere il filo logico che ci ha portato a pensare quella determinata cosa.
Dunque, da qualche giorno prestavo attenzione alle notizie riguardanti Guantanamo e rileggevo anche vecchi articoli, interviste, testimonianze, documenti. L'ONU, si sa, ha chiesto agli Stati Uniti la chiusura del centro di internamento situato nell'isola di Cuba. Il 25 febbraio, poi, il giudice federale Jed Rakoff (distretto di New York) ha ordinato al governo statunitense di rendere noti i nomi dei prigionieri detenuti a Guantanamo. Questi ultimi dovrebbero essere 517, secondo quanto afferma un'indagine della Seton Hall University del New Jersey. Da tale indagine - che sarebbe stata condotta sulla base di documenti declassificati forniti direttamente dal Pentagono (?) - risulta che solamente il 5% degli internati a Guantanamo è stato catturato dalle truppe USA in Afganistan, mentre il restante 95% sarebbe costituito da persone consegnate ai militari statunitensi dai servizi segreti pakistani e dall'Alleanza del Nord afgana quando si offrivano consistenti somme di denaro a chi consegnava dei "sospetti nemici" (1). In seguito ai nuovi sviluppi sul caso Guantanamo, la stampa ha subito concentrato con maggiore insistenza i propri riflettori sulla situazione dei detenuti in tuta arancione, provocando ancora una volta reazioni di indignazione telecomandata.
Ma l'indignazione non è certo l'unica reazione. Quest'ultima osservazione ha a che fare con la strana intuizione di cui parlavo all'inizio. Ripercorro quindi il filo del ragionamento che è emerso mentre indagavo sull'origine di tale intuizione. Azzardo un'ipotesi sottoponendola a riflessione collettiva, essendo convinto che sia opportuno cercare di partire dal caso Guantanamo - sul quale è già disponibile una considerevole quantità di informazioni specifiche - per fare alcune considerazioni di più ampio respiro.
L'interpretazione dell'odierna condizione di conflitto globale permanente corrispondente al modello dottamente definito "scontro di civiltà" deve il proprio successo anche ad una percezione, diffusa a livello di massa, che in tale modello trova una sua definizione. Ovviamente, questa percezione diffusa è diventata la base su cui costruire massicce operazioni di propaganda a sostegno delle azioni delle oligarchie dominanti. Resta comunque il fatto che certa propaganda assai difficilmente otterrebbe un successo, peraltro duraturo, se dovesse costruirsi sul nulla.
In un contesto che ha come sfondo la crisi dell'egemonia USA sul sistema mondo, la percezione del cosiddetto scontro di civiltà, dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 con le conseguenze che ne sono derivate sul piano emotivo, ha certamente prodotto un clima favorevole allo scontro bellico. Una domanda interna di guerra, si potrebbe dire, che ha dato una spinta alle elite politico-economiche statunitensi verso la scelta bellica come possibile "soluzione" della crisi in atto. È chiaro che, poi, questa scelta è stata pilotata su obiettivi strategici precisi: le guerre vere e proprie si sono abbattute su aree di rilevante interesse geopolitico ed economico - Afganistan prima, Iraq poi.
Il dispiegarsi della "guerra al terrorismo" ha dilatato in modo evidente lo spazio occupato da uno stato di eccezione permanente, spazio entro il quale le norme che caratterizzano lo stato di diritto non hanno più senso. In questo limbo si collocano vicende come i "misteriosi" trasferimenti di prigionieri in mano agli Stati Uniti, i rapimenti di persone compiuti da agenti a stelle e strisce, nonché strutture detentive ignote ed altre invece tristemente note come quelle di Bagram, Kandahar, Abu Graib e Guantanamo.
Ora, aldilà dei ragionamenti che si potrebbero fare su quali notizie siano state fatte trapelare volutamente a proposito di questi casi e quali invece siano realmente sfuggite ai controlli o siano il frutto di indagini indipendenti, quello che si può osservare è che operazioni di questo tipo e veri e propri campi di internamento in cui la tortura è prassi abituale non possono essere ingenuamente concepiti con l'idea di riuscire a mantenere tutto nell'oscurità. Se da un lato è facile credere che il far sapere ciò che accade alle non-persone rinchiuse in non-luoghi come quelli citati sia un metodo per lanciare un messaggio ai potenziali nemici e alle popolazioni che si trovano nelle aree controllate dalle truppe di occupazione, dall'altro si può anche pensare - e questa è l'intuizione che ha fatto irruzione nei miei pensieri - che la spettacolarizzazione per via mediatica di certi fatti sia funzionale alla ricerca di consenso da parte di un potere politico che desidera maggiore legittimazione. Mi sembra infatti impossibile negare, nonché poco serio omettere e non considerare che una parte consistente della cittadinanza certo non si indigna di fronte alle aberrazioni in questione, mentre vi è anche chi nonostante un iniziale e momentaneo rifiuto si convince che certi metodi siano necessari data la situazione in cui ci si trova ad operare (scontro di civiltà e terrorismo). Senza cadere in ipotesi "paranoiche", e visto che la guerra permanente un po' di caos e di problemi d'immagine li crea, non pare inverosimile che l'amministrazione Bush voglia ricordare ai propri cittadini/elettori (ma anche a tutti quelli "occidentali") di essere "disposta a tutto" per proteggerli e difendere la nazione dal Male.
Del resto, va anche tenuto in considerazione che agire secondo le non-regole dello stato di eccezione comporta un rischio relativo minimo. Infatti, la quasi totalità delle critiche e delle condanne che vengono rivolte contro coloro che si rendono responsabili delle atrocità denunciate mira semplicemente al ripristino della "legalità", al ritorno allo stato di diritto. In altre parole, il sistema di potere in sé, con il suo naturale corollario di ingiustizie terrore e nefandezze, non viene messo radicalmente in discussione. Ci si limita piuttosto a chiedere un ritorno ad una situazione di "normalità" che viene fatta abitualmente corrispondere allo stato di diritto, quando invece dovrebbe essere chiaro che lo stato di eccezione rientra nello spazio di normalità concepibile all'interno di un sistema di potere.
Silvestro
Note
(1) vedi F. Pantarelli, Guantanamo, Bush dovrà fare i nomi,
"il manifesto" 26/02/06. Anche: MI. CO., Se il nemico non è
combattente, "il manifesto" 17/02/06.