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Umanità Nova, numero 10 del 19 marzo 2006, Anno 86

Senza giustizia sociale non c'è pace
No alla guerra. In Iraq, Afganistan, Italia...


La guerra puzza di cadavere, ma questo non implica che la pace odori di gelsomino. I periodi tra guerra e guerra esalano un lezzo più sottile e profondo, che a un naso sensibile e addestrato non sfugge.
(Savinio)


La guerra è progressivamente entrata nel sangue della società italiana, a piccole ma crescenti dosi: un avvelenamento sottile, lento e letale.
Tutto può essere fatto risalire al lontano 1982, l'anno in cui per la prima volta dopo il secondo conflitto mondiale, un ridotto contingente di truppe italiane venne inviato in "missione di pace" nel Libano, suscitando limitatissime opposizioni interne, nonostante l'esistenza in Italia di un vasto movimento per la pace attivo contro il pericolo di un confronto nucleare in Europa tra i due blocchi imperialisti attraverso la Nato e il Patto di Varsavia.

Dopo decenni che hanno visto ulteriori interventi delle forze armate italiane, ben lontani dai confini nazionali, tra i quali la partecipazione alla prima guerra contro l'Iraq nel '91, alla famigerata missione Restore Hope in Somalia dal '92 al '94 e all'aggressione Nato in Kosovo nel '99, si è quindi giunti ad un presente in cui circa 6 mila militari italiani sono impegnati in operazioni di guerra in Iraq e Afganistan.

Eppure, per quanto graduale, l'escalation interventista dei diversi governi italiani non avrebbe potuto raggiungere gli attuali livelli di coinvolgimento senza due condizioni essenziali: la giustificazione della lotta al terrorismo e la professionalizzazione del servizio militare.

In particolare, la cosiddetta lotta al terrorismo, dichiarata su scala globale dopo l'11 settembre 2001, ha infatti immesso nel comune sentire l'oscura presenza di un nemico della "nostra" civiltà contro cui combattere, ovunque e comunque.

Un nemico multiforme, invisibile, fanatico e senza confini che, oltre a divenire il pretesto delle proiezioni militari dell'affarismo economico made in Italy, è quotidianamente utilizzato per motivare le politiche di sfruttamento, discriminazione e repressione attuate dalle oligarchie dominanti contro le classi, le dinamiche sociali e le soggettività meno "compatibili" del pianeta.

Per questo, si può affermare senza bisogno di alcuna conferma, che in questi anni la guerra esterna ha incrementato quella interna, così come quella sul fronte interno ha dato impulso a quella sui fronti esterni.
In Italia infatti, così come negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, Israele o Russia, si motivano sia occupazioni militari che misure liberticide appunto da stato di guerra, proprio come mezzi necessari per debellare un indistinto pericolo terroristico proveniente dall'esterno ma pericolosamente alleato ad estremismi e dissidenze interne.
Elemento centrale di tale ossessiva narrazione ideologica è un nuovo razzismo che in primo luogo, come indicato da Foucault, è il modo in cui, nell'ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione, viene introdotta una separazione: quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire, ossia dell'immutato paradigma bellicista per cui vivere significa occorre massacrare i nemici senza alcun riguardo o rimorso.
Senza questa premessa, lo spettacolo degli orrori, delle torture, dell'annientamento propinato quotidianamente come informazione democratica, non solo sarebbe inservibile ma persino controproducente sul piano della propaganda, in quanto mostrerebbe la contraddizione insanabile tra la vita rappresentata da ogni individuo e la violenza pianificata e prodotta su scala industriale da tutti i sistemi di potere.

Invece se, come dimostrato dal regime nazista, l'equazione tra l'essere nemico e l'essere inferiore, e quindi subumano, diventa verità la guerra torna ad essere l'igiene del mondo e persino lo sterminio appare la più efficace profilassi.

Da qui la necessità di un'opposizione alla guerra in grado di riconoscere e minare la guerra anche nei rapporti sociali, nella comunicazione e nelle strutture coercitive attraverso cui lo stato, in tutte le sue varianti governative, conduce sordamente la sua guerra quotidiana. 

Alvaro De Campos

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