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Umanità Nova, numero 11 del 26 marzo 2006, Anno 86

Giuseppe Pinelli: la memoria non si cancella
La verità fa ancora paura


Notte tempo, come i ladri. E senza pudore.

Su ordine del sindaco, nella notte milanese, una squadra di tecnici e scalpellini ha raggiunto Piazza Fontana e ha rimosso la lapide che ricordava l'assassinio del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuto all'indomani della strage di Stato. Quella lapide nella quale gli studenti, gli anarchici e gli antifascisti milanesi, rievocando la tragedia che aveva visto il nostro compagno precipitare dalla finestra della Questura, avevano scritto a chiare lettere la verità, una verità condivisa che neppure anni di menzogne e depistaggi istituzionali erano riusciti a nascondere: Pinelli era stato ucciso innocente, al termine di un interrogatorio illegale, condotto da par suo dal commissario Calabresi e durato quasi tre giorni e tre notti. 

In una notte milanese, come si è detto, quella lapide è stata sostituita da un'altra, sostanzialmente identica, se non per lo stemma municipale che la sovrasta, e per il fatto che la parola "ucciso" è stata sostituita con "morto". Forse per non turbare le oneste coscienze di tanti bravi cittadini eredi della cosiddetta "maggioranza silenziosa". Poca cosa, si dirà, se non fosse che per morire, si muore tutti, ma essere uccisi, e in modo così vigliacco, è sorte di pochi.

Il 12 dicembre 1969, in un pomeriggio invernale, una bomba esplodeva nella sede della Banca dell'Agricoltura di Milano, uccidendo 17 persone. Altre bombe, piazzate a Roma, facevano, fortunatamente e casualmente, molto meno danni. Era l'inizio della strategia della tensione, di quella strategia studiata a tavolino da un potere impaurito e rabbioso, che avrebbe portato, da lì a pochi anni, a centinaia di morti sparsi per il paese. Servizi, manovalanza fascista e schegge istituzionali non esitarono a uccidere e atterrire, per i loro sporchi interessi e per quelli dei mandanti internazionali. E Piazza Fontana, nei loro disegni, avrebbe dovuto essere l'inizio della fine. Partendo dagli anarchici, considerati l'anello debole della sinistra e credibili esecutori dell'attentato davanti a un'opinione pubblica frastornata, per risalire alle altre forze della sinistra antiistituzionale e poi, piano piano, chissà... 

Ma purtroppo per loro, gli anarchici non si dimostrarono affatto un anello debole, anzi. Pietro Valpreda, nonostante le pressioni a cui fu sottoposto, non concesse una virgola alla tremenda montatura che gli stavano costruendo addosso, e Giuseppe Pinelli, opponendo la sua lucida verità agli inquirenti, li spinse all'errore fatale, facendo crollare quel progetto che avrebbe potuto affermarsi solo con la rapida confessione delle "belve umane". E noi, che allora vivemmo con un'intensità così drammatica quei drammatici giorni, non potremo mai rendere appieno l'idea di quanto siano stati importanti il suo sacrificio, la sua fermezza, la sua determinata consapevolezza. Anche se già i tremila compagni che ne seguirono il feretro in una Milano blindata e in stato di assedio dettero un senso, da subito, alla sua morte.

Naturalmente questa iniziativa della giunta Albertini non poteva passare sotto silenzio, e infatti, in una città che sembra non volere dimenticare, non sono mancate autorevoli prese di posizione. Ma eccetto quelle di quanti si mantengono coerenti, molte, anche di chi fu fra i primi a denunciare l'assassinio di Pinelli, oggi intendono rimuovere un passato di cui il loro presente berlusconiano li fa vergognare. Tanto per non fare nomi, l'avvocato Contestabile, allora difensore della famiglia Pinelli e oggi senatore di punta di Forza Italia, che plaude alla decisione di Albertini e al tempo stesso afferma di credere ancora alle responsabilità di Calabresi. E il giudice D'Ambrosio, che archiviò con la straordinaria formula del "malore attivo" il presunto suicidio di Pinelli, assolvendo così Calabresi, e che oggi rivendica quella sua assurda sentenza. E l'ex prefetto e sindaco in  pectore Ferrante, che dietro a questa vergognosa rimozione della verità, non riesce a vedere altro che una strumentale manovra preelettorale dei suoi avversari. Forse, a questo punto, hanno più senso le rancorose, e scontate, affermazioni della signora Gemma Capra vedova Calabresi.

Come dicevamo, Milano è comunque una città che non intende dimenticare. Anche perché, al di là di quelle che possono essere le convinzioni politiche dei suoi cittadini, in molti conoscono bene la "vera" storia di Piazza Fontana. E sanno altrettanto bene che non basta cambiare nottetempo una parola per affermare e diffondere nuove "verità", che urtano troppo contro una memoria collettiva e condivisa.
E ai compagni della Federazione anarchica milanese, che hanno subito riscritto "ucciso" sulla nuova lapide, coprendo poi lo stemma meneghino con la bandiera rossa e nera, non c'è bisogno di dire molto. Tanto sanno benissimo che eravamo tutti con loro.

P.S.R.

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