Umanità Nova, numero 11 del 26 marzo 2006, Anno 86
Per molti, Parigi e la Francia sono state, nel maggio del 1968, una sorpresa, una scossa emotiva ed uno stimolo all'impegno politico o alla radicalizzazione della propria militanza. Nanterre, la Sorbona, gli scioperi e le manifestazioni studentesche, fino all'assalto, a colpi di bottiglie molotov alla Borsa di Parigi, l'occupazione delle fabbriche, entravano - con quelle immagini televisive in bianco e nero - nelle case e nelle coscienze di un ceto studentesco nostrano - ancora impantanato nelle lotte, eterodirette, alle varie riforme scolastiche o intruppato nelle rituali manifestazioni contro la guerra americana in Vietnam - con una forza dirompente. Molti si ammalarono di "francesite", nella forma (Gauloises, Pastis e Eskimo) e nella sostanza (la pensabilità e la praticabilità di una lotta rivoluzionaria, radicale, dura e libertaria).
Passati tanti anni, maturate tante esperienze, subite tante sconfitte, lo stupore continua a non venire meno di fronte di fronte alle grandi lotte e mobilitazioni che, ciclicamente, si sviluppano in Francia. Così è stato per il grande sciopero dei lavoratori dei trasporti di una decina di anni fa, così è stato in tante altre occasioni, così è oggi di fronte alla lotta contro la precarizzazione.
Ma andiamo alla cronaca sintetica di quanto sta succedendo:
Il 16 gennaio il primo ministro De Villepin annuncia misure di flessibilizzazione per combattere la disoccupazione giovanile. Un quarto dei giovani tra i 18 e 25 anni sono disoccupati (più del doppio della media nazionale). Iniziano proteste studentesche e sindacali contro le misure di flessibilità del lavoro introdotte (tra cui la famigerata CPE) in oltre 150 città. Il 7 marzo oltre 100.000 manifestanti in piazza. Bloccati trasporti e servizi pubblici in più di 35 città. Decine di università occupate contro la CPE. L'11 marzo la polizia sgombera la Sorbona. Il 13 marzo De Villepin difende la riforma, mentre la protesta cresce fra gli studenti, i liceali e i disoccupati. Cortei, manifestazioni e scontri con la polizia un po' dappertutto. Il 16 marzo c'è una grande manifestazione di 250.000 persone a Parigi. Cortei in altre 80 città francesi. Duri scontri con la polizia. Il 18 marzo, un milione e mezzo di dimostranti in tutta la Francia. Attacco dei manifestanti alla Sorbona. De Villepin si mostra disponibile a trattare, ma non a ritirare il provvedimento. I sindacati minacciano lo sciopero generale.
Fino qui i fatti e sono fatti che impongono qualche elemento di forte riflessione.
Innanzi tutto l'abisso che c'è fra la situazione francese e la nostra. La lotta degli studenti, dei precari e dei disoccupati sta ancora crescendo e a differenza delle mobilitazioni nostrane (puramente difensive ed estremamente minoritarie) sta raccogliendo migliaia di adesioni e ci sono decine di università in lotta su rivendicazioni che riguardano, non le condizioni immediate degli studenti, ma le loro prospettive future nel mondo del lavoro. Cosa che in una situazione ingessata come la nostra non è nemmeno pensabile. E se poi arriverà Prodi, scioperi e lotte diventeranno un lontano ricordo... sacrifici, sacrifici, con grande senso di responsabilità...
Allora, giusto per il gusto dell'analisi, viene da chiedersi perché in Francia sì ed in Italia no… Proviamo a fare qualche ipotesi. A parte le ovvie - storiche ed attuali - differenze (un capitalismo più "maturo", un "welfare" non ancora smantellato, una società civile più "avanzata", una coscienza generale dei diritti più "estesa" - mettiamo tutto tra virgolette perché non si intende fare l'apologia di queste caratteristiche, che hanno tutte il loro pesante rovescio della medaglia) c'è anche da considerare che in Francia manca il monopolio dell'opposizione sindacale e politica che da noi è stato (ed è ancora, sebbene in scala minore) esercitato pesantemente e in maniera asfissiante da comunisti, post-comunisti e cigiellini (e loro alleati). Il conflitto sociale e di classe appare perciò in modo più netto e non totalmente mediato dalle burocrazie della sinistra. Questo già si vedeva nelle differenze fra il '68 francese (più breve, ma più violento e dirompente sul piano dei contenuti) e il '69 italiano. Questo si è visto con i grandi scioperi dei lavoratori dei trasporti di qualche anno fa, che hanno paralizzato per più di un mese Parigi e le altre grandi città (sostenuti da un vasto consenso popolare) confrontati con la ritualità dei nostri scioperi generali (che sono, in fondo, una sorta di spettacolo in cui i ruoli sono rigidamente prefissati e gli esiti, in qualche modo, scontati). Si è visto, per certi e pur diversi aspetti, anche con i disordini delle banlieue. Si vede oggi con la lotta degli studenti su una questione fondamentale come la precarietà del lavoro, quando da noi nemmeno i "bellicosi" sindacati di base riescono a cavare un ragno dal buco.
Esaurite queste dovute considerazioni, rimane ancora la questione della "dignità", che non sarà un usuale elemento d'analisi politica e che ci porta ad avventurarci sul terreno scivoloso e infido dei caratteri nazionali, ma che pure è un dato di fatto. Esemplificando e banalizzando non si può negare che quando i francesi cantano l'inno nazionale siano molto meno ridicoli dei nostri coretti stonati dell'inno di Mameli. C'è un nazionalismo "serio" (non per questo meno dannoso e oppressivo) e un nazionalismo "cialtrone e sbragato", il nostro, sia che venga interpretalo da destra che da sinistra.
È vero, il nemico, laggiù come qui, è sempre lo stesso, però in Francia sembra (almeno da lontano) avere una sorta di "presentabilità", qua è rappresentato dal un venditore di illusioni e da uno di mortadelle che si sono "affrontati" in tv senza avere nulla da dire...
È possibile che da questa comparazione di contesti venga
fuori che se di fronte si ha un nemico forte e definito, allora anche
la lotta diventa più sensata e radicale, ma se di fronte
c'è una amalgama non ben distinta, in cui i ruoli e le posizioni
si confondono, allora l'opposizione e la lotta non possono che essere
un'altra amalgama indistinta e quasi sempre priva di contenuti radicali.
Sorgono allora, a cascata, altri spunti potenziali di riflessione che ci limitiamo sinteticamente ad elencare:
È possibile che le lotte debbano nascere solo per opposizione e non per affermazione di principi e di idee? Dunque per combattere qualcosa di preciso e di definito, in assenza del quale le ragioni del lottare si annacquano? Il complesso di rapporti di potere e di forza nostrano, nella sua apparente indeterminatezza, incarna dunque un sistema di potere ben riuscito e in grado di annichilire, più che altrove, le coscienze? Come mai tutto quello che ci viene dalla Francia suscita in noi grande clamore emotivo e di partecipazione, ma in realtà non lascia sul terreno, qualche forma di risveglio coscienziale?
Infine ancora una riflessione: le parabole dei movimenti di lotta - al di là delle diverse caratteristiche - finiscono per assomigliarsi. In Francia, più pragmaticamente e con maggior impatto, le lotte esplodono, si estendono a macchia d'olio e poi - almeno per quanto riusciamo a percepire - finiscono senza lasciare alcuna traccia visibile, alcun depositato organizzativo... da noi su scala minore e con minor impatto (ricordiamo la seppur importante lotta degli autoferrotranvieri) succede lo stesso. Una tendenza dunque apparentemente generale di questa fase. Non sarebbe necessariamente un problema (di organizzazioni politico-sindacali che si sono autoproclamate interpreti ed eredi di chissaché ne abbiamo avute fin troppe) se lasciassero almeno memoria di sé. E quando diciamo memoria non si intendono le fondamenta di mitologie future, ma semplicemente il senso della praticabilità delle lotte.
Per concludere, possiamo forse consolarci pensando all'importanza di rinnovati ed estesi momenti di rivolta contro un sistema che sembra ormai completamente dominante. Possiamo lavorare, se non altro, perché in prospettiva memoria, ricordo, ricostruzione diventino strumenti fondamentali per capire le ragioni di vittorie e sconfitte, anche se vivendo in un determinato momento storico è difficile contestualizzarlo. Possiamo valorizzare pratiche di lotta molto dirette e molto dure che rompono equilibri e ruoli che sembrano immutabili. Quello che non dovremmo fare - rispondendo alla curiosa domanda del titolo - è celebrare messe per Parigi, ovvero esaltare il movimento francese d'oggi, riproponendo ritualmente, tristemente e acriticamente l'invito a "fare come in Francia".
Walchiria