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Umanità Nova, numero 12 del 2 aprile 2006, Anno 86

Le ragioni dell'astensionismo anarchico 6
Perché non voterò


Non sono nato astensionista, né sono stato allevato a latte, biscotti ed anarchia. Ho iniziato a fare militanza politica molto presto, nella mia città natale, a Torino. A 14 anni, nel bel mezzo del riflusso politico, dopo la batosta FIAT, ho aderito a Democrazia Proletaria. Ero contento: nel mio liceo, il famoso Massimo D'Azeglio, si era da poco costituito un gruppetto di demoproletari. Erano gli anni della sopravvivenza politica: il 1980 aveva di botto spazzato via il lungo '68 italiano e nella mia città il peso della sconfitta era stato intenso come un uragano che spazza via tutto, lasciandosi dietro detriti, paura e soprattutto smarrimento. Me ne accorgevo, ma poi non più di tanto: ero troppo giovane per valutare le conseguenze di ciò che era accaduto e poi per me era tutto nuovo. La cosa che si percepiva maggiormente in quegli anni era il silenzio che ci circondava: di strade, di locali, di cinema (molti chiudevano). Gente silenziosa, poche automobili, sguardi fuggenti. Erano gli anni del cosiddetto riflusso e il nuovo yuppismo non si era ancora apertamente dispiegato: ma c'erano già tutti i sintomi. I miei coetanei spesso mostravano aperta insofferenza verso il discorso politico e la politica in genere: dopo i tumulti dei rivoluzionari di professione affiorava l'aria del disimpegno, della "leggerezza" esistenziale, della post-modernità incipiente. E chi, come per me, aveva deciso di trasformare idee, sentimenti e sensazioni in militanza, era abbastanza dura. Perché Democrazia Proletaria?: potrei dire incontri. L'organizzazione politica delle idee è spesso casuale: dipende dai più vecchi, dagli amici, dalla tua scuola, dal tuo posto di lavoro, dalla famiglia, dal quartiere e così via. Poi l'età ti permette di mischiare idee sentimenti ed altro senza grossi problemi. Ed era quello che facevo: ascoltavo musica punk ed altro, suonavo "anarchicamente" la batteria in un gruppo punk, mi piacevano le idee anarchiche, pero militavo in gruppo della nuova sinistra senza che questo mi creasse dei grossi problemi. Dall'età più matura mi sono sempre definito un comunista libertario, questo ad indicare che non ho mai apprezzato il socialismo da caserma, né alcun tipo di involuzione autoritaria di un sistema sociale basato sulla giustizia sociale. Libertario per me era ed è indissolubilmente legato all'idea di libertà, nel suo pieno esercizio individuale e collettivo, quindi responsabile: l'opposto della concezione liberal-liberista-libertaria, ovvero capitalistica del termine. E tra le altre cose votavo: naturalmente per il mio partito di riferimento. Se mi avessero detto di votare un democristiano per far eleggere un governo non distante dalle mie posizioni, probabilmente gli avrei sputato in faccia. Il sistema proporzionale certamente aiutava: tra le altre cose penso che sia l'unico impianto elettorale pienamente democratico all'interno di una concezione liberale del potere politico. Quindi ero facilitato: potevo votare, nel partito che mi rappresentava, la persona che ritenevo, per varie ragioni, più rappresentativa di interessi, lotte e battaglie sociali di un qualche rilievo. Tra l'altro l'1,7% di voti a Democrazia Proletaria contava allora di più, in termini di proposta politica e di agibilità sociale, di quanto conti, oggi, un 10% dei due partiti neo-comunisti. Ma lasciamo perdere. Tant'è che, sulla base di una concezione avvalorata dalla gran parte dei comunisti, eretici o meno poco conta, vi era l'idea tattica della politica elettorale, come strumento da utilizzare (compresi i soldi dello stato) per sostenere direttamente ed indirettamente un progetto rivoluzionario di trasformazione radicale della società. Poi, e questo naturalmente succedeva anche allora, molti di coloro che approdavano alle istituzioni costruivano su quel ruolo una carriera, ben remunerata, e costruivano attorno ad una transitorietà sociale presunta un mestiere vero e proprio. Da rivoluzionari di professione a politicanti di professione. Iniziavo, timidamente, a pensare e discutere sul concetto di delega politica e di rappresentatività elettorale. 

Faccio ora un salto e ci troviamo a ridosso di due appuntamenti elettorali di grande portata: il 1994 ed il 1996. Allora non facevo più parte di alcun movimento organizzato ed ero uno dei figli della diaspora demoproletaria che non si era ancora collocato: bazzicavo centri sociali, case occupate riunioni sindacali, di base soprattutto, seguivo conferenze anarchiche, collettivi di lotta eccetera. Senza impegno e senza patria politica: votai pure in quelle occasioni. Dopo l'ascesa del cavaliere, seppur con mille distinguo del caso, ero terrorizzato da un suo possibile ritorno dopo l'esperienza del biennio 1994-1996. E votai, più per paura che per altro: ma cosa avevo fatto? Avevo dato semplicemente una delega in bianco a gente che avrebbe voluto rappresentare la mia vita, i miei interessi, le mie passioni e, aiuto aiuto, le mie idee: avevo delegato insomma, ma non era certo quello che avrei voluto, perché introducessero i co.co.co, il lavoro interinale, l'apprendistato sino a 24 anni, una finanziaria di rigore, la riforma delle pensioni, una riforma scolastica da rabbrividire (Berlinguer), la guerra in Kossovo... Mi fermo naturalmente: non pensavo certo che quello fosse stato il mio mandato elettorale, ma loro, in nome dell'antiberlusconismo, compivano nefandezze che mai nella vita mi ero sognato di dover appoggiare. La logica era sempre quella dello spauracchio e del meno peggio..., proprio come oggi. E la logica della paura, mi hanno sempre spiegato, non ci porta da nessuna parte.

Attenzione, non penso certo che gli uni siano uguali agli altri, anche se le sfumature con il tempo tendono a scomparire, ma questo Confindustria lo ha ben capito. Non penso che un compagno di rifondazione sia uguale ad uno dell'UDC, ma nemmeno ad uno della Margherita, tanto per capirci. Ma non è questo il punto. Ed è qui che le mie idee, approfondite e sviluppate, iniziavano ad intersecarsi, per poi confondersi, con quelle del pensiero anarchico: non vogliamo delegare, per prima cosa, su questioni la su cui la delega non è né possibile, né auspicabile. Non vogliamo delegare perché qualcuno rappresenti interessi che possono essere rappresentabili solo da coloro che li portano avanti nelle lotte, nelle pratiche di vita, nelle organizzazioni che ognuno, liberamente, si sceglie di dare. E soprattutto, infine, qualsiasi sia il sistema elettorale, non firmiamo nessun assegno in bianco a persone che da quell'assegno possono trarne solo benefici personali e i cui impegni sono sottoposti alle loro personali coscienze, e quindi alle loro coalizioni, alle loro poltrone, ai loro interessi, alle logiche di maggioranza, ai loro colleghi, anche fascisti (perché i fascisti parlamentari, ma vale anche per piduisti, mafiosi ecc, sono prima parlamentari che tutto il resto e quindi colleghi di altri parlamentari). 

La via parlamentare al socialismo, se mai è esistita, ormai si è persa nei meandri dei cashmire di Bertinotti.

Pietro Stara

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