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Umanità Nova, numero 13 del 9 aprile 2006, Anno 86

Noi e la Francia
Tra apatia e rivolta


Le piazze di Francia si riempiono di manifestanti, studenti e lavoratori, contro l'introduzione di una normativa che sancisce per legge la precarietà, l'ormai famoso CPE, contratto di primo impiego per giovani sotto i ventisei anni, di durata biennale, durante il quale si può essere licenziati senza giusta causa; il contratto alla sua scadenza è rinnovabile per un altro biennio e così via fino ai ventisei anni. Il governo francese e tutti i cantori della precarietà vendono il CPE come necessaria e improcrastinabile risposta alla disoccupazione giovanile di massa: i giovani non trovano lavoro perché le aziende, pur bisognose di manodopera, non assumono a causa dei troppi vincoli della legislazione sul lavoro. In realtà, in Francia esiste già il contratto di nuovo impiego (CNE), che prevede un periodo di prova di due anni, prima della stabilizzazione: questo contratto non si sarebbe dimostrato adeguato a por rimedio alla disoccupazione giovanile e da qui la necessaria adozione del CPE. Risposta della società francese: occupazione di università e licei, piazze riempite da manifestazioni a ripetizione.

E da noi che succede? Quale è lo stato del conflitto sociale nel paese del pacchetto Treu (di sinistra – legge 196/97) che introdusse lavoro interinale e co.co.co. e della legge Biagi (di destra – legge 30/03) con la sua flessibilità selvaggia?

Se si dovesse fare un semplice confronto e dire che i giovani francesi si ribellano alla precarietà, mentre i giovani italiani no, si commetterebbe un errore, perché le due società, quella italiana e quella francese hanno loro peculiarità che rende impossibile avvicinarle. Soprattutto la coscienza del significato della cittadinanza è molto diverso. Questo attiene alla storia dei due paesi, a come le istituzioni si sono andate formando, al valore dato sia alle istituzioni che all'individuo. Indipendentemente dai partiti e dai sindacati, la società francese a tratti è capace di grandi mobilitazioni, trascinando dietro di sé appunto partiti e sindacati, quando ritiene leso un principio basilare, cioè che il governo non può fare tutto quel che vuole dei cittadini. La dinamica conflittuale tra potere/governo e società è fisiologica e normale là dove sia le istituzioni che la società civile sono forti, hanno una loro identità ben definita, possono quindi scontrarsi e battersi ad armi pari, sono soggetti autonomi. Lo scontro può essere molto duro, ma in gioco non c'è l'abolizione del governo, al massimo la sua sostituzione.

Al tempo stesso, le manifestazioni di questi giorni hanno dimostrato che liceali ed universitari francesi non sono solo bianchi e di buona famiglia, né che gli unici giovani che in Francia scendono in strada vengono dalle periferie. Negli anni, giocoforza, le istituzioni scolastiche sono state il luogo dove un tentativo di integrazione c'è stato tra i tanti colori della pelle dei francesi, perché dobbiamo ricordare che di cittadini francesi si tratta e non di immigrati quando pensiamo a molti giovani magrebini o provenienti dall'Africa nera, tutti dalle delle ex colonie come origini dei bisnonni, nonni o dei genitori, ma nati in Francia.

Va poi detto che per i due motivi appena citati, la Francia quasi al completo si mise di traverso quando Le Pen e il suo Fronte Nazionale arrivarono addirittura al ballottaggio per le presidenziali proprio contro Chirac, né una formazione politica come il Fronte Nazionale, chiaramente fascista, ha ottenuto alcun sdoganamento da parte delle altre forze politiche, men che meno di destra. L'antifascismo è fortemente radicato sia a livello popolare che istituzionale ed ha motivazioni certo nazionaliste, per la destra di matrice gollista, ma è come se ci fossero, in Francia, dei limiti che non si devono superare: e allearsi con i fascisti è una cosa che non si fa, neppure per vincere le elezioni. Vichy resta una macchia nella storia francese, non c'è revisionismo che tenga.

Paese cattolicissimo, la Francia è a livello istituzionale radicalmente laica. Vuoi per tradizione che affonda le radici nella storia (l'Illuminismo, la Rivoluzione, ecc.); vuoi per nazionalismo (il papa è pur sempre un capo di stato estero), vuoi perché la composizione della società richiede che le istituzioni siano laiche se si vuole mantenere un minimo di coesione sociale.

Guardando in casa nostra, vedo assuefazione e conformismo all'essere furbi e mancanza di senso della giustizia e della solidarietà; vedo assuefazione ad essere governati da fascisti; vedo accettazione supina dei diktat clericali. Vedo una società in-civile priva di sogni comuni, apatica, indifferente. Questo è un paese dal tessuto democratico e sociale debole, che può facilmente strapparsi, slabbrarsi, sfilacciarsi. Nell'assenza di ogni discorso che ha per orizzonte la classe, resta la cittadinanza come categoria che permette di articolare un discorso politico all'altezza della contemporaneità.

Ma qui si sconta tutto il deficit di laicità e di educazione alla libertà di questo paese, tutta la sua storia di fascismo, clericalismo, di ineluttabile soggezione ai padroni vecchi e nuovi (esiste ancora la questione meridionale?), di padroni sempre pronti a farsi assistere dallo stato e a foraggiare le organizzazioni politiche più retrive, un paese che ha visto stragi insanguinarlo senza che fossero puniti mandanti ed esecutori, un paese di servitù militari e basi NATO da cui si può decollare per bombardare chicchessia.

Il processo di avvicinamento di un sempre maggior numero di persone alle decisioni sul proprio futuro avviatosi negli anni '60-'70 è stato con violenza interrotto in questo paese. La ferita, la cesura, è netta. L'onda lunga della controrivoluzione ancora si fa sentire. Mi pare imprescindibile ripartire da qui per ogni discorso che pretenda di avere un qualche spessore politico.

Simone Bisacca

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