Umanità Nova, numero 13 del 9 aprile 2006, Anno 86
Di che colore sono le toghe dei giudici che hanno emesso la sentenza per gli scontri all'ospedale San Paolo di Milano la notte in cui fu ucciso dai neofascisti Davide Cesare?
Ben un anno e otto mesi a due suoi compagni, vittime della repressione poliziesca, accusati di resistenza e danneggiamento, solo sette mesi per un maresciallo dei carabinieri accusato di concorso in lesioni personali aggravate e di abuso d'ufficio, assolti altri due agenti e due militanti dei centri sociali. Una sentenza che definire paradossale è semplicemente il minimo. Ricordiamo i fatti.
Nella notte fra il 16 e il 17 marzo 2003 a Milano, nell'ancora popolare quartiere Ticinese, un trio di nazifascisti, appartenenti alla stessa famiglia, aggredisce a coltellate alcuni compagni tra i quali Davide Cesare, meglio conosciuto come "Dax", il quale rimarrà sul terreno agonizzante per diverso tempo fino a che un'autoambulanza lo trasporterà all'ospedale San Paolo. La gravità delle ferite è tale che Dax non riesce a farcela. Ed è appena morto quando la polizia e i carabinieri danno il via a feroci cariche, sia all'interno che all'esterno dell'ospedale - una vera e propria caccia all'uomo con mazze da baseball, tubi di ferro ed estraibili – contro compagne e compagni che vi si erano recati per raccogliere notizie, colpendo indiscriminatamente, oltre agli amici di Dax, il personale medico e paramedico, i pazienti e i loro parenti, come denuncerà prontamente l'USI Sanità. Sangue per terra, ferite al volto e alla testa, denti e nasi rotti, braccia e polsi spezzati, persone abbandonate a qualche isolato, buttate giù dalla volante con il braccio rotto senza che gli fosse contestato alcunché, persone ferite a cui i punti di sutura venivano dati mentre erano ancora ammanettate, molestie sessuali: questo, per sommi capi, il tragico bilancio di quella notte.
Uno scenario che rievoca tristemente il 2001 con le cronache dell'irruzione alla scuola Diaz a Genova, o la brutalità poliziesca a Napoli.
I media hanno tentano di ridurre l'aggressione squadrista di quella notte a un episodio di banale rissa tra balordi, cercando di mettere sullo stesso piano vittime e aggressori. Similmente, le ricostruzioni di questura e prefettura hanno cercato, come al solito, di deformare la verità dei fatti, comunque documentati da riprese video, fotografie e numerose testimonianze, e che è stata confermata anche in aula. Nonostante questo però i giudici della quarta sezione penale del tribunale di Milano hanno emesso una sentenza al tempo stesso ambigua e paradossale. La sentenza infatti "mitiga" le pene richieste dal pm Claudio Gittardi, che aveva chiesto sì due anni e dieci mesi per concorso in lesioni e resistenza aggravata contro i quattro compagni di Dax, ma anche due anni e sei mesi per il maresciallo che invece è stato condannato solo a sette mesi, due anni per lesioni e abuso d'ufficio per l'agente di polizia assolto e sei mesi per possesso di armi improprie (una mazza da baseball) al carabiniere Zen. Insomma pene annullate o ridotte per tutti, ma non ovviamente nella stessa misura. "Si può dire che hanno dato un verdetto di compromesso - ha commentato uno dei difensori dei compagni di Dax - con mitigazioni di pena in alcuni casi consistenti. Bisognerà attendere le motivazioni per capire secondo quali criteri i giudici hanno ritenuto di non condannare il poliziotto e il carabiniere Zen benché per quest'ultimo fosse stata provata la detenzione della mazza da baseball". Proprio l'agente Zen è già in carcere dalla fine di gennaio perché implicato in un'inchiesta condotta dal pm Alessandra Dolci per complicità fra sette militari dell'Arma e alcuni spacciatori. Ieri Zen ha consegnato al tribunale una lettera in cui ha affermato che quella famosa mazza non sarebbe stata sua bensì di un suo superiore, ma i giudici hanno ritenuto di non doverla prendere in considerazione. Per i due compagni, comunque sia, non si tratta di pene "miti", anche perché il tribunale, come se non bastasse, li ha caricati di ben 100 mila euro di risarcimenti.
"Un vero paradosso - ha commentato l'avvocato difensore Pelazza - ancor più se si considera che sono mancate prove specifiche e personali a loro carico". Ricordiamo che l'omicidio di Dax fu il più grave e tragico episodio di una lunga catena di aggressioni compiute da gruppi o "simpatizzanti" di estrema destra contro centri sociali e militanti di sinistra, catena che continua ancora oggi in tutta la Lombardia, da Bergamo a Milano, da Varese a Brescia.
mv