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Umanità Nova, numero 15 del 30 aprile 2006, Anno 86

L'esercito a caccia di sponsor
Assassini con il logo


Ansa, 20 aprile 2006
«Esercito. Mancano i soldi. Largo agli sponsor».
«Niente carro armato targato Coca Cola, "questo no. Ma in tempo di vacche magre – dice il capo di Stato maggiore dell'Esercito, Filiberto Cecchi – bisogna guardare le cose in termini innovativi". E dunque largo agli sponsor».


Che per le spese militari si sia in tempi di vacche magre, come vedremo, ce ne corre, certo però che di sponsor le gloriose Forze Armate della Repubblica nata dalla Resistenza (ma quante maiuscole!!) ne trovano, a quanto pare, fin che vogliono: già 14 infatti sono le imprese, le banche, le società di assicurazioni, pubbliche o private, che investiranno una parte dei loro equivoci utili per finanziare la manifestazione che il 4 maggio celebrerà il 145° anniversario dell'Esercito. E questo affollarsi di sponsor ai margini e al fianco di una istituzione che dell'uso delle armi e della violenza di Stato fa la sua ragione d'essere, la dice lunga sul grado di indecenza al quale è giunto un paese che si dichiarò rinato alla dignità, sulle rovine di una guerra drammatica e dolorosissima. 

Ma tant'è, questi sono i tempi. E questi sono i "valori" che li percorrono. Comunque, al di là della facile ironia che si potrebbe fare su questi poveri generaloni, ridotti a vendere le fiancate dei carri armati, come l'ultimo dei taxi, per potersi pagare gli stipendi, resta il fatto che questo continuo piangere miseria dei vertici delle forze armate rappresenta, a ben vedere e soprattutto in tempi di crisi economica generalizzata, un insulto a tutti coloro che a fine mese si ritrovano, puntualmente, ad erodere il già ristretto bilancio famigliare.

A sentire gli alti comandi, infatti, sembrerebbe che tutte le ultime finanziarie, di destra come di "sinistra", abbiano lentamente ridotto i già ristretti margini economici dell'esercito, costringendo appunto le gerarchie militari alla ricerca di sponsor, pena la paralisi dell'istituzione. Se così fosse veramente, non ci sarebbe che da rallegrarsi, benedicendo, una volta tanto, le conseguenze della crisi economica. Ma così, naturalmente, non può essere. E infatti così non è. Solo che, per accorgersene, e quindi mandare a quel paese i lamenti dei generali, bisogna mettersi a fare un po' di lavoro da ragionieri.

E sia!

Se si guarda al Bilancio di previsione del Ministero della Difesa si vedrà che negli ultimi dieci anni la percentuale delle spese militari resta sostanzialmente all'1,5% del Pil. Senza effettive variazioni. E quindi bisognerebbe dare ragione a chi si lamenta. Però, c'è un però. Ed è che questo "Bilancio" non tiene conto delle cosiddette "missioni di pace" (finanziate con decreti appositi), non tiene conto delle spese per sviluppo di armamenti (che rientrano nel Bilancio del Ministero delle Attività Produttive), non tiene conto dei finanziamenti statali a favore dell'industria militare, non tiene conto della spesa di quella parte dell'Arma dei carabinieri che di fatto svolge compiti militari. Insomma, si direbbe proprio che non tenga conto di un bel po' di cosette. E cosette, come si vede, non da poco. E infatti, se si guardano i calcoli della Nato, che tiene saggiamente conto di tutte queste cose, si vedrà che la percentuale sul Pil sale al 2% (tanto per fare un esempio, la percentuale impiegata per le politiche sociali ed ambientali è del 2,7%) e che l'incremento medio, sempre in questi dieci anni, è stato del 2,3% con il centro sinistra e del 4,8 con il centro destra. Insomma, chi più chi meno, alle spese militari nessuno ha lesinato un fico secco.

Posso immaginare che questa sfilza di cifre sembri noiosa, però mi pare che sia anche istruttiva. E quindi andiamo pure avanti.
Secondo i dati del rapporto Sipri (Istituto internazionale di Stoccolma per la ricerca sulla pace), l'Italia, con i suoi 27,8 miliardi di dollari spesi nel 2004, "si piazza al settimo posto della graduatoria mondiale precedendo paesi tradizionalmente con alta spesa militare come Russia, Arabia Saudita, Corea del Sud e India". Andando poi a vedere la spesa pro capite, siamo a circa 500 dollari annui, più di cento di quanto spendono Giappone o Germania. Per chiudere con le cifre, interessanti certo ma forse un po' aride, è significativo che, mentre per le spese militari siamo al settimo posto al mondo, per le spese del cosiddetto Stato sociale, che ammontano al 2,7% del Pil, dobbiamo confrontarci con una media europea che si aggira sul 7%: quella che, fuor di metafora, si potrebbe definire una bella figura di merda!

Dicevo, e non a torto, che fermarsi alle aride cifre, anche se interessante, non può essere sufficiente. Se lo facessimo, ci metteremmo al livello di coloro, anche e soprattutto nella sinistra estrema, la cui unica preoccupazione è "razionalizzare" la spesa militare. Quando invece si dovrebbe parlare, a nostro modesto parere, della eliminazione pura e semplice di questa voce dalla spesa pubblica. L'esercito, infatti, e non solo quello italiano naturalmente, non è semplicemente una istituzione parassitaria che se fosse gestita meglio potrebbe trovare una certa utilità. L'esercito, e non solo quello italiano naturalmente, è una struttura repressiva e autoritaria, finalizzata al controllo sociale interno e alla oppressione esterna. E non ci sarà certamente bisogno di citare esempi di come questa istituzione abbia esercitato, eserciti ed eserciterà le proprie funzioni: quelle di usare come suo unico strumento la violenza, la forza delle armi e la loro capacità distruttiva, sia fisica che morale.

E le cose non cambierebbero se sulle bombe lanciate sulla testa delle popolazioni civili ci fosse il logo di una banca o di una marca di merendine. 

Massimo Ortalli


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