Umanità Nova, numero 15 del 30 aprile 2006, Anno 86
Lo scorso 2 febbraio, in Commissione Servizi del Senato, il
superboss di tutti i capi dei servizi segreti, John Negroponte,
interrogato sull'escalation nucleare iraniana, ha dichiarato che a suo
avviso – autorevole data la posizione – l'Iran non possiede
ancora né la bomba atomica né il "materiale fissile
idoneo per costruirla": "se l'Iran procederà lungo questa
strada, probabilmente produrrà la sua bomba nel prossimo
decennio".
Pochi giorni dopo, il 5 di febbraio, il Pentagono pubblicizza il
Quadriennal Defense Review in cui tipicamente esplicita la propria
politica nei successivi quattro anni. Ricollegandosi testualmente al
Defence Planning Guidance del 1992 (che inaugurò
l'amministrazione democratica di Clinton), troviamo ribadito che gli
USA non consentiranno la nascita di una superpotenza concorrente
dissuadendola pertanto a sviluppare armamenti di distruzione che
"determinino egemonie regionali o azioni ostili agli USA". Orfani del
collasso dell'impero sovietico che aveva garantito fiumi di miliardi di
dollari al complesso militare-industriale, nonché una chiara
strategia politica e identitaria tanto per le elite, quanto per la
popolazione, il governo Clinton si impegnava a "prevenire ogni potenza
ostile nel dominio di un'area le cui risorse fossero sufficienti, sotto
un controllo duraturo, a determinare un dominio globale". Tra le
potenze emergenti, oggi "la Cina presenta il maggiore potenziale per
competere militarmente con gli Usa (…) con la possibilità
nel tempo di ribaltare il tradizionale predominio militare americano",
specie "in assenza di una controstrategia" .
Controllo delle comunicazioni satellitari e nucleare "tattico"
Questa controstrategia invocata dal QDR/2006-10, oltre a prevedere un predominio tecnologico nel controllo delle comunicazioni satellitari, parallelo al classico strapotere sopra e sotto gli oceani, nei cieli e per terra, prolunga l'introduzione dell'uso effettivo del nucleare tattico, proposta dall'amministrazione Clinton con lo sviluppo di una bomba termonucleare limitata dal nome in codice B61-11 (ovvero Nuclear Earth Penetrator, NEP, buona per distruggere fortificazioni sotterranee del genere dei bunker afgani o dei reattori atomici sotterranei - come si sospettano siano quelli iraniani tra Natanz, Pars Trash, Farayand e Isfahan, invisibili agli ispettori dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica).
Per Clinton e i suoi strateghi democratici (sic!) banco di prova della B61-11 (elaborata per la prima volta nel 1966, e sganciabile da uno Stealth o da un normale F-16, di quelli presenti anche sul suolo italiano) è proprio il Medio Oriente. Curiosamente, l'idea di sviluppare bombe nucleari a basso impatto sul territorio sfugge alla classificazione come arma di distruzione di massa (WMD), sebbene il potenziale di penetrazione sotterranea non sia molto alto, quindi si presume che il suo uso sprigionerebbe radiazioni anche dai crateri aperti sulla superficie, dove solitamente vive popolazione civile su cui non si vuole o non si dovrebbe infierire. La verità è che il nucleare tattico serve come leva di vantaggio nei classici conflitti convenzionali tra stati, nella fattispecie del terzo mondo: la propaganda del Pentagono, infatti, la presenta come uno strumento di pace dedito al "peace-making" ed al "regime-change", avverso le "non-state organizations (terrorist, criminal)" o avverso gli "Stati canaglia" unilateralmente selezionati di cui vantare il possesso di pretese armi di distruzione di massa, immancabilmente assenti.
La Nuclear Posture Review del 2001, quindi in piena era Bush, colloca la dottrina nucleare nel teatro mediorientale dove insistono prevalentemente i paesi dell'Asse del male (ieri Iraq, oggi Iran e Siria, scomparsa la Libia e relegata in Estremo oriente la Corea del Nord). Tuttavia, la NPR/2001 va oltre la già discussa commistione tra l'autodifesa preventiva (pre-emptive self-defense), in quanto tale lecita se in imminenza palese di un attacco, e l'azione preventiva (anticipatory action) contro un nemico o uno stato canaglia nella presunzione indimostrata di un attacco o addirittura per impedire l'acquisizione o il possesso di armi di distruzione di massa che consentano di sferrare un ipotetico attacco. "I responsabili della pianificazione della sicurezza devono essere pronti a sfide possibili ma in atto peraltro improbabili. (…) Le forze armate devono prepararsi a reagire ad armamenti e capacità esistenti o meno a breve termine, anche in assenza di scenari di guerra. Per massimizzare la dissuasione all'uso di WMD, è importante che le forze americane siano pronte all'uso effettivo di armi nucleari e siano determinate ad impiegarle se del caso al fine di prevenire o reagire a un attacco" (NPR/2001, p. III-1).
La Direttiva Presidenziale sulla Sicurezza Nazionale n. 17 del 2004,
che solitamente non viene controllata dal Congresso in quanto organo di
riequilibrio dei poteri di governo ai sensi della Costituzione,
ribadisce il concetto applicandolo allo scenario di guerra in corso in
Medio Oriente e, soprattutto, estendendolo al di fuori dei confini
nazionali – quindi in caso di attacco nemico a forze americane in
terra d'occupazione – e al di fuori dei propri cittadini –
quindi in caso di attacco a forze alleate o amiche. Visto che l'Iran
rientra tra le potenze dell'Asse del male poiché in possesso di
Armi di distruzione di massa (proprio come l'Iraq di Saddam
Hussein…) e visto che l'Iran sostiene e finanzia il terrorismo
islamico – sebbene l'unica organizzazione terrorista
esplicitamente legata a Tehran (Hizbullah) sia stata relativamente
inerte in questi ultimi anni, anzi addirittura si sia trasformata in un
partito politico che concorre al governo pacifico del Libano –
non sorprende come la leadership iraniana si preoccupi di uscire
dall'isolamento internazionale in cui è precipitata quando per
giunta era diretta da un presidente democratico e vicino alla cultura
occidentale come Khatami.
Tecnologia nucleare e alleanza con la Cina
È così ovvio che il cambio di politica estera sia
figlio di un revanscismo di reazione per come la civiltà
persiana è stata trattata quando era disponibile a riavviare i
contatti con il loro Impero del male (ossia gli Usa e l'occidente in
genere), frustrati tanto dai governi democratici e repubblicani di
Washington, tanto da quelli europei, molto più versati a fare
affari che a fare politica. Così l'attuale presidente
Ahmadinejad - che pure deve affrontare un malcontento diffuso in una
società giovane e per nulla orientata a imbarcarsi in un'altra
guerra, con il ricordo ancora fresco del conflitto decennale degli anni
'80 con Saddam, anzi galvanizzata dal successo sciita nell'Iraq
liberato dalla coalizione dei volenterosi con la quale coopera
sottobanco a livello di ambasciatori e plenipotenziari per ridare
stabilità all'area irachena, futuro trampolino di lancio per la
rivincita dello sciismo sui sanniti sauditi a capo di una rete
finanziaria e politica antisciita – si è lanciato in
proclami farneticanti sia per distogliere gli indigeni dai problemi
interni, sia per alzare la posta della collaborazione in Iraq, sia
perché convinto che l'asse politico-imperiale del pianeta si
stia spostando inesorabilmente verso oriente, un oriente minaccioso con
ben quattro potenze nucleari e dotate di WMD (Cina, Russia, India e
Pakistan) con le quale allearsi, ma senza subordinarsi, in cambio di
privilegi energetici (l'Iran possiede il 10% delle riserve energetiche
mondiali e dispone di 30 mld di $ di profitti dal loro commercio
internazionale da destinare alla militarizzazione e non alla spesa
sociale, nonostante il populismo demagogico verso gli strati più
popolari dell'ex sindaco di Tehran su cui ha costruito la propria
ascesa politica).
Il nucleare iraniano, al di là dell'aspetto tecnologico e
scientifico sul suo uso pacifico e/o militare, sarebbe una carta di
sicurezza geopolitica: non si capisce perché questa banale
riflessione di realpolitik statuale debba valere per Israele, per
l'India e per il Pakistan, che se ne sono dotate infrangendo i trattati
internazionali in materia ma senza suscitare vespai bellicosi, mentre
Tehran non può perché minaccerebbe gli alleati americani
e il possesso di risorse energetiche indispensabili non per gli Usa
– i cui quattro-quinti di petrolio proviene dai giacimenti propri
e da quelli venezuelani e africani – bensì proprio per
quella potenza virtualmente globale che ne minaccerebbe il dominio
mondiale. Ecco perché l'Iran – la cui Guardia
rivoluzionaria fedele al clero erede di Khomeyni ha operato un golpe
bianco sui quadri civili nei vari ministeri sostituendo funzionari
borghesi con propri esponenti di fiducia - si sente forte sebbene
isolato: ormai percepisce il vento dell'est e ritiene l'occidente
prossimo alla resa dei conti in condizione di inferiorità, e
spera con ciò di legarsi alla Cina, mediante l'accesso delle sue
imprese alle risorse energetiche, come salvacondotto, fidando o
scommettendo che il declino occidentale arrivi prima del decadimento
dell'economia iraniana.
Colpire l'Iran per chiudere un importante rubinetto energetico alla Cina
Se però Negroponte ha ragione, al di là della dialettica tra falchi e colombe a Washington, la posta iraniana non sta nelle intenzioni dissennatamente antisemite di un presidente fanatico come Ahmadinejad, quanto nel tassello del Grande puzzle con cui gli Usa vogliono impedire alla Cina di sfidarla politicamente e quindi militarmente, negandole accesso alla risorse energetiche necessarie al decollo della potenza orientale nella seconda metà del XXI secolo.
Non è allora per caso se, all'indomani della Direttiva presidenziale 35 del maggio 2004, il vice-presidente Cheney, vera anima nera e guerrafondaia dell'industria bellica a stelle e strisce, abbia richiesto allo Stato maggiore (UsStratCom) un "Contingency Plan da far scattare in seguito ad un altro September 11". E il piano prevede, come si lascia filtrare, un attacco aereo e missilistico, da cielo e da mare, su oltre 400 obiettivi iraniani tra siti nucleari, strutture produttive e infrastrutture logistiche (ma siccome l'appetito viene mangiando, si parla di 1500 obiettivi leciti dal punto di vista militare, fotografati da aerei spia senza pilota). Inoltre, sotto copertura, agiscono già da tempo sul suolo iraniano agenti in cerca di dati geopolitici significativi nonché di contatti con elementi dell'opposizione da finanziare, sul modello iracheno che però, piccolo particolare, non ha affatto funzionato. L'idea che un attacco preventivo conduca la popolazione iraniana a sbarazzarsi di una leadership teocratica denuncia ignoranza e arroganza, quando è invece naturale che in nome della difesa della patria anche i dissidenti si stringano intorno al proprio paese e ai leader eletti e non eletti. Attaccare l'Iran domani, a prescindere se le forze armate statunitensi siano in grado essendo impegnate nel pantano iracheno, significherebbe fra l'altro lo scatenarsi di bande terroriste legate a Tehran non solo in Medio oriente e nel conflitto israelo-palestinese (nel quale l'Iran ha sempre svolto un ruolo defilato e tutto sommato marginale se non irrilevante, ad eccezione del contesto libanese).
In altri termini, ammesso che l'amministrazione Bush abbia sentore
di un altro attacco devastante sul suolo americano e lo lasci
perpetrare per secondi fini, stile Pearl Harbour nel 1941 come è
ormai storicamente riconosciuto, è evidente comunque che gli Usa
strumentalizzano la sicurezza territoriale, da secoli mai messa in
discussione per via della posizione geografica continentale-insulare,
come strumento di legittimazione per guerre di aggressione contro
nemici individuati di volta in volta secondo una strategia globale
inconfessabile se perseguita con mezzi offensivi e militari.
Le molte aporie della strategia preventiva
Persino Henry Kissinger, che al suo attivo ha una serie di nefandezze genocidarie non da poco, pur concordando con gli sforzi dell'amministrazione Bush ha espresso forti riserve su tale strategia preventiva tesa a confermare il ruolo di predominio americano sul pianeta. Da una parte, infatti, non è chiaro lo statuto logico ed epistemico (cioè di certezza dei dati acquisiti) che dovrebbe innescare l'azione preventiva contro nemici legittimamente canaglieschi agli occhi di tutti perché irriducibilmente pericolosi, terroristi, criminali e guerrafondai: "essa si fonda su presupposti impossibili da provare nel momento stesso in cui vengono enunciati. È proprio quando si possiede massima libertà d'azione che si sa di meno". "Se ogni nazione si dà la propria definizione di diritto all'azione preventiva, (…) ciò favorirà la proliferazione di armi di distruzione di massa", spettralmente agitate non da stati più o meno responsabili, come si suol fittiziamente dire, ma da bande organizzate di criminali poco restie ai tipici compromessi internazionali (sebbene sia tutto da provare il possesso di bombe sporche da parte di mafie e reti terroriste).
La stessa costruzione propagandistica del mostro è talmente sopra le righe da risultare poco credibile al resto del mondo, che peraltro legge i documenti del Pentagono esattamente come fa, maldestramente, il sottoscritto. Dall'altra, la strategia di cambiamento dei regimi in favore di democrazie esportate, pur prive di consolidati livelli di civiltà liberale alle spalle, con il risultato ibrido di portare al potere leadership illiberali o addirittura ostili agli Usa ma con grande consenso di massa, si è già rivelata un fallimento. Né è più praticabile la distinzione amico-nemico per cui alcuni paesi possono infrangere impunemente il Trattato di non proliferazione nucleare, mentre altri no, esclusivamente in base a rapporti politici di affinità.
Paradossalmente, la strada per uscire dalla crisi iraniana esiste
già ed è stata ripetuta più volte dal
plenipotenziario iraniano: instaurare colloqui diretti, ristabilire
relazioni diplomatiche, pieno rientro nel quadro di monitoraggio e
controllo dell'IAEA, adesione iraniana al Trattato di Non
Proliferazione con i relativi protocolli, sostegno degli sforzi
energetici civili in consorzio con imprese occidentali (segnatamente
americane e inglesi), come del resto promesso più volte nei
confronti della Corea del Nord ma mai realizzati, proprio perché
quel cancro alle frontiere cinesi è utile se sempre virulento
(giusto come la guerra dei Balcani andava prolungata più a lungo
possibile per indebolire gli sforzi europei per una superpotenza
alleata ma concorrente in seno al fronte occidentale).
La strategia USA verso l'Iran decisa due anni prima dell'escalation del conflitto tra Iran e AIEA sul nucleare
Se la successione delle date non ingannano, quindi, l'escalation iraniana sul nucleare nei confronti dell'AIEA, degli Usa e del mondo intero arriva ben due anni dopo la definizione della strategia statunitense verso la teocrazia iraniana, decisa a vendere cara la pelle prima che sia troppo tardi. Il diversivo nazionalista esalta la fierezza locale che smarrisce di vista il degrado economico e sociale conseguente alla militarizzazione religiosa della società, parimenti del resto a quel che accade alla società americana obnubilata dai teocon al potere. In questa simbiosi involontaria, tipica della politica statuale, il nucleare è uno dei fronti di una guerra permanente di lungo periodo che trova nella war on terror solo lo specchietto di legittimazione ad uso delle masse per politiche aggressive e belliciste che hanno come posta il predominio planetario. Cercare di sfuggire ad esso, senza schierarsi con i contendenti di cui è difficile riscontrare elementi di bontà e di utilità per il benessere e la felicità dei singoli e dei popoli, significa praticare una diserzione politica altamente pericolosa, sovversiva in quanto irrecuperabile alle logiche competitive e complementari del conflitto per il potere. Ecco la radice geopolitica del capro espiatorio nazionale e internazionale, sia esso il nemico interno, sia esso il fondamentalismo islamico tout court terrorista.
Come agire in quanto anarchici diviene sempre più difficile se non riusciremo ad ampliare il raggio di intelligibilità di tale condizione epocale presso una opinione pubblica sempre più drogata da fattori e processi inessenziali quali il coinvolgimento della società civile nelle dispute meschine di potere locale, ora a favore di un centrosinistra, ora a favore di un centrodestra, entrambi berlusconizzati sin dentro l'immaginario. Dalla sua rottura occorre ripartire, anche a livello internazionale, per uscire dalla strettoia politica in cui sembra essersi cacciato un movimento anarchico (ma anche quello no global o pacifista non sembra da meno, a leggere attentamente l'impasse di Marcos in Chiapas) riavviando un dibattito politico di ampio respiro, finalizzato alla individuazione di una strategia politica per i prossimi decenni.
Salvo Vaccaro