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"L'altra faccia della guerra"
Supplemento ad Umanità Nova, n 15 del 30 aprile 2006

Lavoro: gerarchia, licenziamenti, leggi antisciopero
La servitù salariata 


Le forme attraverso cui si esercita la repressione nel mondo del lavoro sono le più diverse.

La prima e più naturale è costituita proprio dalla subordinazione, cioè nel fatto che la maggior parte dei prestatori di lavoro si trovino in una posizione di soggezione fattuale giuridica ed economica nei confronti dei detentori dei mezzi di produzione. Questo stato permette l'esercizio di un potere disciplinare che può portare fino al licenziamento. Naturalmente, tale potere disciplinare non viene esercitato per presunte mancanze sul posto di lavoro.

Succede così di essere licenziati per aver denunciato ad una trasmissione televisiva RAI la grave situazione di insicurezza delle ferrovie italiane sia per i passeggeri che per i lavoratori. È quanto accaduto a quattro ferrovieri di Trenitalia. Contemporaneamente, alla conduttrice del programma, sono stati chiesti con un atto di citazione in tribunale 26 milioni di euro per "danno all'immagine" delle stesse ferrovie. Il padrone, in questo caso Trenitalia, è accusato di violare sistematicamente norme di sicurezza a tutela di lavoratori e utenti: perché lo fa? Semplicemente per massimizzare i profitti e perché dopo gli spezzatini di questi anni tante aziende hanno un modello "a rete" la cui prima vittima è proprio l'efficienza e la sicurezza di macchinari e apparecchiature, persa nella nebbia delle competenze del "chi fa che cosa quando". A supportare la denuncia ci sono statistiche e la situazione del trasporto su rotaia sotto gli occhi di tutti. Ormai non si contano più gli incidenti anche gravissimi che hanno causato morti e feriti sulle ferrovie italiane, incidenti dove sono caduti sul lavoro ferrovieri e viaggiatori, spesso a loro volta lavoratori pendolari.

Non solo, sempre le Ferrovie s.p.a. hanno licenziato un altro macchinista, delegato sindacale, perché si è rifiutato di utilizzare un dispositivo in cabina che è dannoso per la salute e che compromette la necessaria attenzione che va posta in tali delicate mansioni. Il dispositivo consiste in un sistema che se non attivato con ripetute pressioni ferma il treno: lo scopo dichiarato sarebbe quello di mantenere vigile il macchinista; di fatto si vuole dimezzare il numero dei macchinisti (attualmente due per motrice). Il bello è che proprio all'errore umano vengono attribuite le maggiori responsabilità in caso di incidente ferroviario, senza sottolineare quanto invece sia spesso la mancata manutenzione e la scarsità e pochezza dei mezzi tecnici, nonché l'obsolescenza di materiale rotabile e delle stesse linee ad essere cagione dei disastri ferroviari che periodicamente insanguinano il nostro paese. Doppiamente ipocrita quindi chi utilizza la scusa della sicurezza per in realtà ridurre ancora una volta il costo del lavoro. E spudoratamente repressivo chi licenzia un lavoratore che smaschera questo gioco perverso.

Al di là del singolo rapporto di lavoro, i meccanismi repressivi colpiscono soprattutto le lotte collettive dei lavoratori, in particolare lo sciopero. Nel settore privato lo sciopero non trova limiti particolari, se non quelli, ad esempio, della necessaria preservazione dell'integrità di macchinari ed impianti. Molto diverso il discorso nel settore pubblico.

Come è risaputo, lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (trasporti, sanità, scuola, ecc.) è regolato dalla legge 146/90, poi modificata dalla legge 83/00. Attualmente, uno sciopero nei servizi pubblici essenziali deve essere preceduto da una procedura di raffreddamento volta ad evitare l'astensione e da un preavviso scritto di dieci giorni; sono previsti intervalli minimi tra un'agitazione e l'altra; devono essere garantite le prestazioni indispensabili.

Sulla corretta applicazione della legge vigila una commissione di garanzia, che ha, tra l'altro, il potere di regolare le prestazioni indispensabili e le procedure di raffreddamento, nonché di sanzionare le organizzazioni sindacali che abbiano violato le norme della legge 146/90.

I limiti fin qui descritti vengono meno solo in caso di agitazioni indette in difesa dell'ordine costituzionale o per protesta contro gravi eventi lesivi dell'incolumità e della sicurezza dei lavoratori. La Corte Costituzionale ha stabilito fin dal 1992 che comunque anche lo sciopero politico – economico è soggetto ai limiti della legge 146/90.

A fronte di questa situazione le strategie possono essere quella dell'aggiramento o quella della rottura.

La vicenda che ha visto protagonisti gli assistenti di volo dell'Alitalia, datisi malati in blocco (oltre 1.500 lavoratori su 5.000 hanno marcato visita contemporaneamente) per protestare contro il progetto di taglio del personale di bordo che l'azienda vuole imporre per "ridurre i costi di fronte alla crisi del trasporto aereo", ha fatto esplodere le contraddizioni del sistema che regolamenta lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, tra cui i trasporti.

L'anomala forma di protesta era stata preceduta da uno sciopero spontaneo del personale della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi di Malpensa e Linate.

L'alternativa è quindi aggirare o prendere di petto il problema, ma comunque il nodo sta nella compressione del diritto di sciopero e nell'attacco ai diritti del lavoro che imprese e governo continuano senza tregua a portare avanti. 

L'aggiramento dei vincoli al diritto di sciopero attraverso la "morbilità di massa" è certo un modo anche per denunciare l'imbastardimento dei rapporti capitale/lavoro cagionato da una legge antisciopero che rende la lotta di classe "virtuale".

Diverso l'approccio degli autoferrotranvieri che scioperarono nel dicembre 2003 in palese e cosciente violazione della normativa che regolamenta il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e consente allora di fare ulteriori riflessioni sui rapporti tra potere, legalità, conflitto sociale.

Per inquadrare correttamente ciò che è successo il 1 dicembre 2003 a Milano, il dato fattuale da cui partire sia lo stato di guerra, in cui il mondo si trova. Nello stato di guerra si possono rispettare delle regole, esiste il diritto bellico, formalizzato da convenzioni internazionali. Costituzioni di molti paesi, compreso il nostro, come è noto, legittimano la guerra solo a certe condizioni. Oggi, si dice, è però in corso la "guerra al terrorismo" e quindi sono saltate le regole della guerra tradizionale. Che ne è stato del diritto? Gli USA hanno invaso l'Iraq violando il diritto internazionale e contro l'ONU: c'è qualcuno che li possa sanzionare? Puro stato di fatto, forza pura.

Guerra, parlamenti, governi, leggi: basta il rispetto formale delle norme a legittimare una violazione sostanziale delle norme stesse? Quanto è ipocrita, doppio, ambiguo, il diritto.

Il problema è che il modello liberale e quello socialdemocratico sono andati in cortocircuito svelando la loro intrinseca ipocrisia. Semplicemente il potere non ha oggi bisogno della loro maschera per affermarsi, per porsi. Chi oggi si appella semplicemente alle "regole democratiche", al "diritto", per chiederne il ristabilimento a livello internazionale o contro l'attuale governo di destra nel nostro paese, fa un'operazione debole e ipocrita al tempo stesso. Perché pone al centro del discorso solo il piano normativo, che, abbiamo detto, è profondamente ambiguo e, per il potere reale, del tutto inutile.
E continuare a parlare di diritto, di leggi da rispettare, di leggi da difendere, di proposte di legge, da parte dei partiti di sinistra e dei sindacati di stato, porta all'oblio del conflitto sociale, alla sua formalizzazione, al suo snervamento.

Il discorso va spostato dal piano dell'ordinamento giuridico a quello dei rapporti economici e di forza. La critica del presente deve partire dalla constatazione che chi detiene il potere reale usa i sistemi giuridici e politici come apparati funzionali al suo mantenimento e alla sua affermazione. La prima gabbia da rompere è proprio quella della legge, perché essa è semplicemente un feticcio, non ha forza in se. E lo strumento per rompere questa gabbia è l'esercizio della libera volontà individuale, che si manifesta anche, come nel caso di uno sciopero, collettivamente.

In fondo è lo stato di guerra in cui siamo stati tutti trascinati che svela, come detto, l'ipocrisia e l'ambiguità dell'ordinamento giuridico. Oggi lo si vorrebbe far funzionare solo per chi lotta per migliori condizioni di lavoro e per una vita migliore e così esso si svela per quello che è, strumento di riproduzione del dominio di chi sfrutta su chi è sfruttato. Alla pura affermazione di se stesso che fa il potere, va contrapposta la volontà individuale e collettiva che prescinde dal binomio legittimo/illegittimo e pone libertà uguaglianza solidarietà come metodo e scopo della propria azione.

S. B.


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