Umanità Nova, n 16 del 7 maggio 2006, anno 86
L'avevano detto e lo hanno fatto. Centinaia di migliaia di immigrati hanno dato vita a uno sciopero generale - la "giornata senza immigrati" - per sensibilizzare l'opinione pubblica americana ed esercitare una forte pressione sul governo affinché non venga approvato un disegno di legge della Camera dei rappresentanti dal pesante impianto repressivo nei confronti dei lavoratori immigrati irregolari.
Significativa la scelta del primo maggio come giornata da dedicare al blocco delle attività visto che questa data non è una festa nazionale negli Stati Uniti.
Molti dei quasi 12 milioni di immigrati irregolari che vivono negli Stati Uniti hanno risposto all'appello allo sciopero: il mercato all'aperto di Union Square a New York ha funzionato solo in minima parte. A Broadway, i numerosi negozi che vendono generi a buon mercato sono rimasti quasi tutti chiusi. I dimostranti hanno formato varie "catene umane" in diversi punti della città. La protesta ha coinvolto anche i bambini, che non sono andati a scuola. Migliaia di persone hanno deciso di non andare al lavoro, di non fare acquisti, né di partecipare ad altre attività per scendere in piazza. Mezzo milione di persone hanno manifestato anche a Chicago. In tutto il paese, molti impianti di confezionamento delle carni sono rimasti chiusi, ma alcuni operatori hanno cercato di prepararsi al blocco aumentando la produzione nel fine settimana. I portavoce di McDonald's hanno riferito che alcuni dei ristoranti della celebre catena di fast-food sono rimasti aperti con personale limitato, solo per poche ore o per il servizio di drive in.
Con un comunicato di pelosa quanto ambigua solidarietà, McDonald's ha reso noto che l'azienda sostiene con forza una riforma dell'immigrazione "per proteggere gli impiegati, i datori di lavoro e garantire la sicurezza dei confini della nazione".
Non è l'unica società che si pronuncia a favore della protesta degli immigrati perché in buona sostanza il padronato americano si sta rendendo conto di come la patata sia diventata bollentissima: praticamente tutta l'economia del paese si regge sulle spalle di milioni di immigrati che lavorano in condizioni di sfruttamento, precarietà e ricatto costante nei settori strategici della produzione nazionale (agricoltura, edilizia, ristorazione, ricezione turistica, terziario). Sarebbe impensabile andare avanti senza di loro. Una bella gatta da pelare per il presidente Bush, stretto dalla necessità di tenere buoni gli istinti più xenofobi del suo elettorato conservatore e puritano, ma d'altro canto preoccupato di non inimicarsi l'importante serbatoio di consenso delle medie e piccole imprese che degli immigrati hanno un maledetto bisogno.
In mezzo a questi interessi incrociati ci sono le aspirazioni di una massa impressionante di persone che al momento attuale esprimono una gran voglia di "legalità" intesa come riconoscimento dei diritti fondamentali di cittadinanza.
Essere riconosciuti "americani" come tutti gli altri è la priorità che i lavoratori immigrati pongono alla base delle loro piattaforme rivendicative. È un buon inizio se si considera che, con i tempi che corrono, è molto difficile negli Stati Uniti praticare un'opposizione sociale dal basso che abbia un contenuto di conflitto radicale. Avere indetto uno sciopero generale del lavoro migrante centoventi anni dopo i fatti di Chicago (nasce da quelle lotte l'odierna ricorrenza del primo maggio) può essere di buon auspicio se gli immigrati sapranno tenere duro in questo percorso di rivendicazione e mobilitazione permanente.
TAZ laboratorio di comunicazione libertaria