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Umanità Nova, n 18 del 21 maggio 2006, anno 86

Petrolio
Oro nero e grande gioco


L'impennata dei prezzi al consumo dei prodotti energetici, innanzitutto la benzina, trova impegnati i governi dei paesi importatori a enunciare dichiarazioni preoccupate sulle bilance dei pagamenti, senza tuttavia muovere un dito per frenarne la rincorsa.

Ciò non stupisce, visto che per l'Italia, giusto per entrare immediatamente in esempi, il costo alto della benzina al pubblico serve a rimpinguare le casse in tempi di stagnazione economica e di deficit di esportazione. È noto infatti come circa tre/quarti del prezzo al litro con cui paghiamo il liquido per le nostre autovetture costituisca una accise prelevata dallo stato.
L'alta quotazione del prezzo del barile di petrolio grezzo non deve ingannarci: anche a 70 dollari, occorre ricordare come un barile contenga 143 litri, e la divisione è un'operazione tanto elementare da rendersi conto che l'estrazione del petrolio dalle viscere della terra, con tutto l'apparato industriale e la manodopera (spesso estera) che occorre, è una attività largamente sotto pagata per ciò che diviene salario della manodopera viva.

Ma allora, perché le lamentele ipocrite dei governi? Nessun governo può certo tifare per un ribasso della percentuale di profitto delle imprese industriale che estraggono petrolio – in joint-ventures con imprese locali dei paesi produttori – o che raffinano petrolio (sempre per fare un esempio locale, la Saras della famiglia Moratti può ben pensare di sbarcare in borsa tra i favori del mercato, visto il vento in poppa, nonostante i miliardi bruciati nell'Inter o a San Patrignano non siano che spiccioli per i rispettivi padroni).

D'altro canto, i paesi produttori filano a braccetto con le multinazionali, i cui profitti si innalzano in proporzione più elevata dei governi possessori delle terre ricche naturalmente di petrolio, ma spesso incapaci ad attrezzare i propri apparati industriali all'altezza delle prestazioni richieste. Infatti, a parte l'Arabia saudita, il Venezuela e la Russia (e da poco pure il Brasile), altri paesi produttori quali Nigeria, Sudan e le regioni caucasiche non dispongono di tecnologie in proprio, finendo nelle fauci delle multinazionali di sempre.

Se a ciò leghiamo uno spauracchio sempre incombente a livello retorico, che pure ha effetti speculativi ben precisi sulle borse, intorno all'insufficienza dell'offerta petrolifera di qui a qualche decennio, a fronte di una domanda incalzante, trainata dalla locomotiva onnivora del pianeta, la Cina, si capisce perché non ci si schioda dai 70 dollari al barile, anzi la tendenza prevista per il prossimo biennio fa stimare l'ascesa rapidamente verso ai 90-100 dollari a barile.

L'incertezza non sta tanto se i paesi produttori sapranno mantenere la quota di offerta stabilmente – è difficile aumentare di appena un milione di barili a giorno, checché ne dicano i dignitari sauditi responsabilizzati dall'opinione pubblica mondiale e dagli addetti ai lavori – quanto se altri paesi sapranno affiancarsi ai soliti noti e se l'Iraq uscirà dalla paralisi bellica. Infatti, con l'Iraq fuori gioco, i primi ad essere entrati in crisi sono stati i paesi dipendenti, Cina e Unione europea in primis, ossia gli avversari del XXI secolo del paese egemone planetario.

Gli Stati uniti, infatti, non dipendono dal petrolio mediorientale se non per appena un sesto del proprio fabbisogno, in genere così ripartito: metà dai giacimenti propri in Alaska e nel golfo di New Orleans (ma Katrina ha danneggiato gli impianti, per adesso stanno ricorrendo ai ripari attingendo alle riserve, sperando in una corsa contro il tempo di ricostituirle senza ricorrere all'acquisto all'estero con questi prezzi da capogiro per l'economia commerciale statunitense in pessime acque, grazie al costo finale della benzina a 40 centesimi di dollaro a gallone); un terzo dai giacimenti africani off-shore sull'Atlantico (dove comunque si registrano conflitti giornalieri, specie in Nigeria con una guerriglia che sequestra decine di impiegati della Shell e di altre compagnie petrolifere, inclusa l'italiana Eni) e un terzo dal Venezuela di quel "comunista" di Chavez, amico di Fidel Castro e di tutta la sinistra latinoamericana, novello Bolivar che ambisce a istituire un mercato comune sub-continentale tagliando fuori gli Usa o, meglio, dettando loro le condizioni per l'accesso.

Dall'altro lato, l'attivismo della Compagnia petrolifera di stato Cinese si muove a tutto campo per attutire gli effetti del controllo indiretto del petrolio mediorientale dalla rivale d'oltre Oceano: Africa e Brasile sono i primi interlocutori dei dirigenti cinesi, smarcandosi sia dalla Russia, sia dai paesi troppo filo-americani per dipenderne a lungo termine.

Geopolitica e capitalismo procedono quindi a braccetto, configgendo all'ombra dei profitti, in questo caso, tanto a pagare sono i soliti automobilisti che per il totem della nostra civiltà sembrano disponibili a sacrificare tutto, fuorché il proprio stile di vita dissipativo, inquinante e ormai impazzito.

Massimo Tessitore


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