Umanità Nova, n 18 del 21 maggio 2006, anno 86
"Dossier Emilio Canzi (Piacenza 1893 - 1945)", pp. 40, supplemento del n. 316, aprile 2006, di "A-Rivista anarchica".
La biografia come genere storiografico, e anche come stile narrativo,
è da considerarsi – nonostante le sue fortune alterne fra
gli addetti ai lavori – un'efficace griglia interpretativa atta a
cogliere il nesso iniziativa individuale / necessità sociale, a
raccordare le tre canoniche velocità alle quali, si dice, viaggi
la storia (appunto: un tempo geografico, uno sociale e uno
individuale). È il caso di quest'agile "Dossier", scritto con
intenti divulgativi ma su basi scientificamente fondate, frutto di un
encomiabile lavoro redazionale collettivo. Alla base di tutta la
più recente fioritura editoriale sull'argomento c'è la
caparbia insistenza con la quale, in questi decenni, si è
mantenuta viva la memoria dell'identità libertaria, riferita ai
movimenti sociali e antiautoritari novecenteschi e, inoltre, c'è
il nuovo promettente clima d'attenzione storiografica alle vicende
dell'anarchismo. I due elementi hanno un evidente rapporto di causa /
effetto. La pubblicazione contiene, oltre la scheda tratta dal
Dizionario Biografico degli Anarchici italiani (BFS 2003-'04) curata da
Claudio Silingardi, vari contributi fra cui l'introduzione di Paolo
Finzi, articoli di Orazio Gobbi, Ivano Tagliaferri, Franco Sprega,
Massimo Ortalli, un intervento del Comitato piacentino dei Giovani
ANPI, importanti testimonianze di partigiani, vari documenti fra cui
uno scritto di Alfonso Failla, una bibliografia essenziale,
un'intervista di grande spessore allo storico locale Mirco Dondi.
Per Emilio Canzi da Piacenza l'arco di vita attiva, d'esperienza esistenziale e quindi di militanza, si colloca esattamente nella fase acuta e tragica del Novecento europeo, in quel periodo definito in gergo "guerra dei trenta anni", che va dal 1915 al 1945. Insignito di medaglia nella prima guerra mondiale, ardito del popolo, esiliato antifascista in Francia e Belgio, combattente per la Spagna libertaria, rinchiuso in campo di concentramento in Germania, confinato a Ventotene, poi di nuovo in campo di concentramento a Renicci d'Anghiari sotto Badoglio, infine nella Resistenza armata nel Piacentino, arrestato dai comunisti e quindi reintegrato nel comando unico, perito tragicamente in un incidente stradale: la traiettoria umana, peraltro assai avvincente, del "colonnello anarchico" (secondo la suggestiva ma pertinente definizione datagli da Tagliaferri nel titolo del suo bel libro) ci pone di per sé questioni che vanno ben oltre il dato évenementiel. Citiamo almeno quelle che ci paiono più ponderose.
La prima riguarda il sempre più evidente conflitto delle memorie su Resistenza e antifascismo. La Storia, interagendo con la Memoria, ci appare indissolubile dalla vita della Polis. La loro concomitante funzione pubblica determina un morboso interesse delle classi dirigenti e della classe politica in genere nella funzione di gestione e controllo. L'uso pubblico della storia s'intreccia oggi con una vulgata ormai propensa a connotare la critica alla "prima repubblica" ed alle sue nefandezze consociative qualificando queste ultime come conseguenza diretta di un imperante, quanto improbabile, dominio dell'antifascismo inteso come ideologia. Le polemiche, prima azioniste e poi sessantottine, sulla Resistenza incompiuta oppure "tradita" ci potrebbero apparire oggi – specie se reiterate in quella forma – abbastanza datate; d'altra parte si deve riconoscere che il paradigma antifascista è stato, almeno in determinate fasi, strumento di legittimazione del sistema politico italiano nel dopoguerra, conseguenza logica dell'incontro inedito fra partigianato e antifascismo degli stati. Da qui scaturisce la constatazione che il conflitto delle memorie coinvolge in pieno lo stesso campo antifascista. La seconda considerazione, utile per superare certi archetipi costruiti nel tempo dagli studiosi e soprattutto dalla pubblicistica anarchica, concerne la necessità di un approccio meno reticente di fronte alle presunte incongruenze militariste degli anarchici. Il loro contributo di sangue è notevole; la loro partecipazione in ambito europeo al bellum iustum, contraltare al bellum iniustum scatenato dai nazifascisti, è quasi plebiscitaria. La vigenza complessiva - movimento e regime - del fascismo in Italia si apre e si chiude avversata da due esperienze di lotta armata dagli opposti esiti che, seppure di spessore diverso e sviluppatesi in situazioni distanti fra loro, sono tuttavia parzialmente assimilabili per matrice ideale. Arditi del Popolo e partigiani nella Resistenza: un filone comune d'ispirazione risorgimentale / insurrezionale / combattentistico funge ogni volta da contenitore per una pluralità di componenti sociali, culturali e politiche; fra queste ci sono gli anarchici con il loro contributo autonomo originale e, nel primo caso, anche determinante.
Da ultimo desideriamo esprimere un plauso ai redattori del Dossier per aver scelto, forse non casualmente, di ignorare la sovrabbondante produzione pubblicistica e storiografica che ormai da anni imperversa sul Campo di concentramento di Renicci d'Anghiari facendo invece parlare un testimone eccezionale come Failla. Anche qui si è delineato, dopo il 1987 (epoca di un primo contributo scientifico sull'argomento), un violento conflitto delle memorie. Renicci fu fino al 25 luglio un campo fascista destinato agli slavi, gestito da fascisti con metodi fascisti; dopo il 25 luglio fu un campo "badogliano" (ergo "antifascista"), destinato agli slavi e ad un centinaio di anarchici, gestito da fascisti con metodi fascisti. La differenza non è una questione di lana caprina. Il regime badogliano si poneva come continuatore di quello mussoliniano nel proseguire le politiche razziste antislave, nel perseguitare gli antifascisti anarchici. Ora storici improvvisati e propagandisti pagati dagli enti locali, utilizzando metodi scorretti e, come sempre, denaro pubblico, hanno voluto negare al campo la qualifica di "badogliano". In tal modo si è annullata – nei fatti – la presenza e la stessa identità dei prigionieri antifascisti rimasti dietro il filo spinato dopo la caduta di Mussolini. Siamo all'ennesima "porcheriola comunista" per usare un termine coniato a suo tempo da Errico Malatesta. Forse questi signori si dovrebbero convincere che il vero conflitto non è fra memoria ("antifascista") e oblio ("fascista"), bensì fra memorie diverse dell'antifascismo. Sì perché anche la memoria ha due facce.
Giorgio Sacchetti