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Umanità Nova, n 19 del 28 maggio 2006, anno 86

Nigeria: Usa e Cina si contendono la torta
Petrolio e miseria


Da un po' di tempo in qua, le cronache dei giornali ci riportano notizie sul clima di violenza che si respira nel delta del Niger. Di recente, il sequestro lampo di un tecnico italiano che lavora per una controllata dell'ENI ci ha interessato da vicino quindi i media si interrogano sulle motivazioni di tali attività criminali in Nigeria, peraltro balzata agli onori dell'attenzione l'anno scorso, in occasione di una serie di tumulti tra etnie differenti e professanti fedi religiose differenti nel nord del paese. Infine, l'eccidio di oltre duecento nigeriani che captavano abusivamente petrolio grezzo dalle condutture, periti tragicamente nell'esplosione di un tratto di oleodotto, ha fatto balzare dalle pagine interne alle prime pagine dei giornali la Nigeria, con una fugace apparizione anche sui media televisivi.
Tuttavia la realtà è sempre più complessa e più aspra di quanto ce la restituiscano i distratti media nostrani. La Nigeria è il secondo colosso di un'Africa inginocchiata da decenni: corruzione, Aids, povertà, disoccupazione di massa, analfabetismo dilagante, influenza aviaria e guerre civili la fanno da padrona su un territorio tra i più ricchi della terra in fatto di risorse naturali. Con 133 milioni di abitanti, di cui oltre il 70% sopravvive con 1-2 $ al giorno, suddivisi in oltre una dozzina di etnie, spaccati tra la fede musulmana e la fede cristiana, la Nigeria è uno stato tra i più poveri del continente nero, nonostante sia l'ottavo esportatore di petrolio al mondo (2,5 mln di barili al giorno per una riserva stimata in oltre 35 mld di barili, con una prospettiva di intensificazione dello sfruttamento dei giacimenti a terra e off-shore), nonostante i suoi 300 mld di $ all'anno di proventi a beneficio di appena l'1 per cento della popolazione, nonostante l'attrazione di capitali internazionali per la linea di gasdotto di 678 km che dal golfo di Guinea dovrebbe portare il gas ai paesi confinanti (Benin, Togo, Ghana), gestito da un consorzio guidato dalla Chevron e dalla Shell, massicciamente presenti in Nigeria, dal costo complessivo di 590 mln di $, di cui 125 già garantiti ai privati dalla Banca Mondiale attraverso il suo ramo assicurativo (Multilateral Investment Guarantee Agency), mentre gli altri dovrebbe scucirli la BEI.

I nigeriani, però, non scorgono alcuna redistribuzione di tali ricchezze, e pertanto da tempo, sin dalla metà degli anni '90, hanno provato con le buone materie a convincere i governi nazionali a dirottare risorse per i fabbisogni locali e a incentivare le compagnie straniere investitrici a orientare parte dei profitti colà conseguiti a fini sociali, costruendo scuole, asili, ospedali, ecc. Ottenuto con ciò solo l'impiccagione di Ken Saro Wiva, noto scrittore e intellettuale dell'etnia degli Ogoni, maggiormente esposti allo sfruttamento eco-ambientale selvaggio, adesso tanto la criminalità organizzata, quanto la guerriglia, nonché singoli cittadini e comunità locali, sono passati alle maniere forti. 

Del resto, trafugare petrolio grezzo intorno al 10% della produzione giornaliera è diventato un bel business: a 70 $ il barile, il mancato guadagno per le casse della Nigeria ammonta a poco di 2 mld di dollari all'anno, poca cosa, che però per le bande organizzate significa un bel gruzzolo per acquistare armi, sostentare i propri componenti, trafficare con altre gang internazionali, corrompere la politica a proprio favore.

Recentemente, a fine aprile, il Senato della Nigeria ha varato un provvedimento di legge, detto "Nigeria Local Content Bill" in cui si prevede la modifica entro 90 giorni di ogni intesa, accordo, contratto o memorandum sinora stipulato affinché i partner nigeriani delle imprese straniere sino rilevate da imprese indigene e indipendenti, al fine di orientare in sede locale il ricavato di tali joint-ventures, sperando in tal modo di ridurre le tensioni e poter contrastare solamente il traffico illegale della criminalità organizzata, depurandola da ogni tensione sociale. Un po' come il decreto del presidente indio Morales che il 1 Maggio ha preso analoga deliberazione nei confronti delle imprese estere che operano sul territorio boliviano.

Ovviamente le società estere non rinunziano ai facili profitti, dati i costi di estrazione tra i più bassi al mondo e la buona qualità del greggio. Inoltre la Nigeria esporta petrolio per il 15% del fabbisogno energetico Usa, pari alla quota importata dal Medio Oriente e dal Venezuela, da qui la crucialità della sua tenuta ad un anno dalle elezioni presidenziali ancora oggi incerte addirittura sui cavalli in partenza su cui puntare (il Parlamento voterà o meno la modifica costituzionale per sfondare il limite del secondo mandato consecutivo, dando così via libera al presidente uscente Obasanjo?).

Non è allora per caso se gli Usa hanno adottato un impegno di alto profilo ("high level") e "proactive" (lo stesso termine adottato per indicare politiche aggressive e interventiste) per indurre la Nigeria a render sicure le proprie coste, sia finanziando 100 mln di $ a tal scopo, sia, già nell'ottobre 2004, a concordare in sede multilaterale (la Conferenza per la sicurezza costiera, tenutasi a Napoli) un programma di intervento coordinato delle marine della regione e della guardia costiera americana al fine di tutelare gli impianti di estrazione e di condutture dagli attacchi di pirateria e dalle rivolte delle popolazioni locali.

Ma dietro all'interesse americano, neanche tanto velato, verso un più stretto controllo militare del golfo di Guinea, c'è anche un altro fattore più ampio e globale: ossia la concorrenza a tutto campo con il gigante cinese. La Cina è diventata il secondo consumatore al mondo di gas e petrolio, e per evitare dipendenza da mercati isolati facilmente controllabili, e quindi per non sottostare a ricatti, strozzinaggi e dipendenze di ordine energetico, sta già da anni diversificando i propri fornitori, tra i quali i paesi africani (Sudan e Angola in testa), Nigeria inclusa.
La Cina sta investendo circa 7 mld di $ in Nigeria, in svariati campi, avendo siglato un primo accordo l'anno addietro di importazione petrolifera del valore di 800 mln di $ (appena 30mila barili al giorno per cinque anni), ribadito lo scorso 9 gennaio, allorquando la Compagnia di stato cinese (CNOC) ha annunciato un investimento di oltre 2 mld di $ per acquistare il 45% di un giacimento petrolifero. Il metodo è copiato da quello originario degli Usa, quando hanno spodestato i vecchi imperi coloniali dalla leadership egemonica negli affari sul continente colorato: pacchetti di investimenti ad ampio raggio, inclusivo di manodopera e armi, ad esempio, a fronte di una marginalizzazione di elementi legati alla qualità della vita sociale e politica, come la tutela dei diritti umani, che invece oggi gli Usa e le Istituzioni finanziarie internazionali (FMI, World Bank, ecc.) pongono come condizione per l'assistenza economica.

In questo modo, la Cina riesce a penetrare in territori prostrati e vittime di politiche di rapina, apportando alcuni minimi benefici alle popolazioni locali (ma dissestando altresì alcune piccole economie di sussistenza, scaraventate fuori mercato dallo scambio di merci con la Cina), acquistando inoltre alleati nei consessi internazionali.

Proprio per limitare tale penetrazione del colosso asiatico (parallela a quella avanzata dall'India) che gli Usa agitano lo spauracchio della presenza di al Qa'eda nella regione, omologando gli islamici Nigeria a pericolosi fondamentalisti terroristi, giusto per innescare un  intervento militare preventivo che tuteli interessi, aziende e persone occidentali, a scapito del destino di un centinaio di milioni e passa di nigeriani, condannati alla miseria in un contesto di ricca opera di depredazione.

Salvo Vaccaro


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