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Umanità Nova, n 19 del 28 maggio 2006, anno 86

La prima enciclica di Benedetto XVI (2)
La carità dei lupi è la strage degli agnelli


Sul numero 5 di Umanità Nova pubblicammo un articolo "La prima enciclica di Benedetto XVI. Cuori incatenati al Vaticano" che esaminava la prima parte della lettera enciclica di Ratzinger dedicata all'amore, quella più squisitamente teorica. A qualche mese di distanza vi proponiamo una riflessione sulla seconda parte della lettera, quella in cui il papa mira a mettere in luce le modalità attraverso le quali la chiesa sperimenta e testimonia l'amore divino. La dottrina sociale della chiesa secondo Ratzinger.


La seconda parte dell'enciclica è incentrata sull'esercizio dell'amore da parte della chiesa, il cui impegno sociale si realizza in particolare tramite l'esercizio della carità.

Questa pratica fa parte integrante, insieme all'annuncio del Vangelo e alla celebrazione dei sacramenti, dei compiti che la chiesa ritiene di aver ricevuto direttamente da Cristo. Già nelle prime comunità cristiane si era presentato il problema delle differenze di ceto tra adepti. I primi seguaci degli apostoli lo avevano risolto piuttosto drasticamente, mettendo tutti i propri beni in comune, come è possibile leggere negli Atti degli Apostoli, il libro che, nel Nuovo Testamento, viene subito dopo i Vangeli.

Il passo secondo cui i primi cristiani praticavano la comunione dei beni ha sempre messo in difficoltà gli esegeti cattolici: da sempre la chiesa ha condannato il comunismo, difendendo, nella propria dottrina sociale, la libertà di mercato e l'ordine gerarchico della società. Eppure, secondo la Bibbia, i primi cristiani erano "comunisti". 

Il papa non si discosta, naturalmente, dalla tradizione del magistero cattolico, e propone anch'egli la carità (più o meno pelosa) come risoluzione ai problemi sociali; se, infatti, citando il brano degli Atti che racconta della prima comunità cristiana a Gerusalemme Ratzinger dice che "i credenti hanno tutto in comune e… in mezzo a loro la differenza tra ricchi e poveri non esiste più", subito dopo si premura di chiarire che "con il crescere della chiesa, questa forma radicale di comunione materiale non ha potuto, per la verità, essere mantenuta". 

Mentre da una parte la possibilità di risolvere le ingiustizie sociali è sempre stata una possibilità che l'umanità più generosa ha vagliato, spesso dando vita a forme di proto-comunismo (abbiamo visto che questo avveniva nelle prima comunità cristiane, così come, in seguito, tra gli anabattisti, per arrivare fino alle sperimentazioni cooperativistiche ed autogestionarie del movimento operaio), dall'altra il potere ha cercato, di conseguenza, di operare in senso caritativo per frustrare i tentativi di emancipazione delle classi meno abbienti.

Non deve allora stupire né che il papa spacci l'assistenzialismo sociale per un'opera meritoria della chiesa cattolica, né che sorvoli allegramente sul proto-comunismo dei primi cristiani al quale, nell'enciclica, si dà un discreto, ma definitivo, benservito.

Scartato il comunismo, che non si addice certo ad una istituzione che, dall'Editto di tolleranza di Costantino (313 d.C.), fino ai giorni nostri, è sempre stata in grado di detenere le leve del potere, la chiesa ha praticato nel corso dei secoli la diaconia, una forma di volontariato assistenziale i cui beneficiari erano vedove, orfani, carcerati, indigenti.

Dovrebbe far riflettere il fatto che nel momento in cui la chiesa snaturava le istanze umaniste (per quanto irrazionali e misticheggianti) del proprio fondatore, contemporaneamente si preoccupava di mantenere la pace sociale attraverso l'attività caritativa. La conquista spietata del potere da una parte, dall'altra le briciole del proprio lauto pasto per i poveri.

Il comunismo della Prima Internazionale è stata la prima radicale alternativa alla falsa carità degli istituti catto-borghesi e, nello stesso tempo, un atto di accusa contro chiese e stati. Le istituzioni sociali della borghesia sono state smascherate dalla pratica militante degli operai rivoluzionari i quali, nel tentativo di sovvertire sistemi ingiusti e classisti, hanno trovato sul proprio cammino la chiesa cattolica, schierata non solo dalla parte dei potenti, ma essa stessa attrice dello sfruttamento dei lavoratori tutti.

Il comunismo nasce, quindi, anticlericale a ragion veduta, e da subito la chiesa ha messo in campo tutte le proprie armi e le proprie forze per far sì che gli operai rivoluzionari fossero ridotti a più miti consigli.

Attraverso la dottrina sociale, infatti, la chiesa ha cercato di dare sistematicità alla concezione cattolica della società, e si è strutturata in chiave antioperaia e anticomunista. 

Il fatto che due secoli di diaconia non avessero minimamente messo in discussione le gerarchie sociali non ha mai turbato i sogni di papi e vescovi, ma ribadire la centralità della prassi caritativa oggi, come cerca di fare Ratzinger, è una manifestazione palese di malafede, un consegnare le classi disagiate alla perpetuità della propria condizione.

La condanna del comunismo, che puntualmente arriva anche in questa enciclica, di fatto è anche una condanna del tentativo più generoso intrapreso storicamente dal proletariato per emanciparsi dallo sfruttamento della classe borghese. L'uso delle speranze proletarie che i regimi dell'Est hanno fatto è speculare alla diaconia cattolica in occidente: per i proletari non c'è stata che dittatura da una parte, pietismo dall'altra. 

Il marxismo è fallito, dice il papa, quindi oggi la palla passa a chiese e stati, i quali, nell'autonomia che li contraddistingue, devono operare in modo da risolvere il problema della povertà.
Dunque si consegna l'agnello (il proletariato) ai lupi di sempre (stati e chiese). In che maniera la chiesa opererà perché le ingiustizie sociali siano superate o, perlomeno, ridotte?

Il papa ribadisce, in linea con tutto il magistero ecclesiastico, una regola fatta di sole eccezioni: la chiesa non si occupa di politica, quindi deve essere il potere civile a farlo, attraverso la prassi democratica. Alla chiesa spetta, invece, il compito di "offrire, attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili". 

Il concetto di "purificazione" della ragione torna più volte nello scritto di Ratzinger: alla chiesa spetterebbe un compito di "consigliera" del potere politico, e "lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene" essa compie il proprio mandato, che nulla avrebbe a che spartire con questioni materiali.

Insomma accanto ad ogni politico siede un vescovo, questa è la metafora che mi sembra si possa trarre dalle parole del papa, un consigliere spirituale che possa additare la via della ragione e del bene comune, in nome della caritas di cui è maestro.

I fedeli laici, invece, possono adoperarsi direttamente per il bene comune, vivendo la politica come carità sociale. Solo nelle istituzioni caritative (che i fedeli laici provvederanno a far finanziare abbondantemente) la chiesa esercita il proprio ministero, agendo direttamente i valori che la animano.

Purificando la ragione secolare e agendo con le proprie istituzioni caritative la chiesa contribuisce, secondo Ratzinger, ad edificare nel presente un mondo migliore, più umano e fraterno; la carità sociale, quindi, non sarebbe solo un atto di conservazione dello status quo, come vorrebbe la dottrina comunista, la quale, invece, immola l'uomo al moloch del futuro.

In questi passaggi mi è sembrato di cogliere un sospiro di liberazione da parte del papa, un "abbiamo vinto" che aleggia nell'enfasi che egli pone descrivendo le meraviglie della caritas cattolica che, a braccio con i potenti della terra, migliora la vita della povera gente.

Appare, inoltre, quanto meno paradossale criticare il comunismo, per il fatto di posticipare la felicità terrena, da parte di chi ha fatto del regno dei cieli un business piuttosto redditizio e sicuramente poco falsificabile. 

La vittoria della caritas cattolica sull'alternativa che il marxismo ha preteso, fino ad un certo momento, di rappresentare, non è altro che la possibilità di riaffermare a cuor leggero le false coscienze della società occidentale, e questo è quanto mi sembra faccia Ratzinger nel suo scritto.

Nelle parole del papa, implicitamente, possiamo leggere il senso dell'ineluttabilità che le cose del mondo devono avere: alcuni uomini possono continuare a sfruttare la maggioranza della popolazione mondiale con la benedizione delle gerarchie cattoliche, che dai potenti stessi traggono i mezzi per la propria azione di diaconia sociale. Al proletariato resta anche il dovere della gratitudine, insieme alla dovuta rinuncia a qualsiasi forma di emancipazione sociale. La carità dei lupi è la strage degli agnelli.

Paolo Iervese


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