Umanità Nova, n 20 del 4 giugno 2006, anno 86
L'Afganistan è entrato in una nuova era di speranza
(G. Bush II, 11.10.2002)
La rivolta scoppiata a Kabul il 29 maggio, dopo un incidente stradale
che ha visto un autotreno, parte di un convoglio militare Usa,
schiantarsi contro alcune auto civili e causare cinque vittime,
potrebbe apparire incomprensibile se l'intero contesto sociale afgano
non risultasse da tempo in caduta libera, ben oltre anche l'estesa
offensiva della guerriglia talebana di primavera, contrastata a stento
da bombardamenti e rappresaglie, e la diffusa insorgenza in varie
province che ormai gli stessi comandi statunitensi ammettono trovarsi
fuori dal loro controllo, come dichiarato dal colonnello Tom Collins
appena il 24 maggio, con particolare riferimento alle province di
Kandahar, Helmand e Uruzgan.
Infatti, se una folla come quella che ha dato vita ad una sorta di intifada, iniziata nel poverissimo quartiere periferico di Khir Khana e subito violentemente dilagata sino a lambire il centrale quartiere Wazir Akbar Khan, dove si trovano le ambasciate occidentali difese dalle mitragliatrici, e ad assediare il palazzo del parlamento, gridando slogan ostili verso il governo Karzai e l'occupazione statunitense, significa che la situazione complessiva è davvero giunta al punto in cui anche una goccia può far traboccare un vaso da tempo colmo. Se poi, la reazione scelta dalle forze occupanti, non solo Usa ma anche dell'Isaf-Nato e delle forze governative di polizia, continua ad essere quella di sparare sulla folla, causando decine di altre vittime, significa che davvero in Afganistan è ormai iniziata una guerra sociale non meno grave della stessa guerriglia.
E come ogni conflitto sociale e di classe ci sono ragioni sociali ed economiche ben precise a scatenarlo, anche se ben dissimulate dietro alla retorica attorno alla democratizzazione portata, sulla punta delle baionette, dalle truppe straniere che dovevano "liberare" il popolo afgano. Altri sono infatti i dati che contano, piuttosto che le sbandierate percentuali di votanti alle elezioni: in numerose province mancano ancora energia elettrica e acqua potabile, mentre si muore di fame, di tubercolosi (15 mila morti all'anno secondo le stesse fonti Onu), di complicanze legate alla gravidanza, con una donna vittima di queste ogni circa mezz'ora. Ma si muore anche sopra le mine sepolte ovunque e sotto i bombardamenti delle forze occupanti che per colpire le aree ribelli non esitano a provocare continue stragi tra i civili.
D'altra parte, l'esportazione della cosiddetta democrazia, ossia la guerra, ha portato altra miseria e altre disuguaglianze, disoccupazione, lo stravolgimento della vita e del tessuto urbano, la privatizzazione della sanità, l'incremento esponenziale della prostituzione e della corruzione, l'imposizione di modelli culturali e regole non condivise dalla stragrande maggioranza della popolazione che deve fare i conti anche con un apparato repressivo che non ha niente da invidiare a quello del regime talebano, tra sparizioni e torture supervisionate dai reparti speciali Usa e dai contractors privati incaricati della sicurezza.
La situazione economica complessiva è pressoché la stessa che gli afgani conoscevano prima del 2001, dato che in questi cinque anni di occupazione militare straniera si è assistito solo allo sviluppo dell'intreccio di interessi tra capitale legale e illegale, sempre più concentrati nelle mani di pochi attori e strettamente connessi tra loro.
La stessa tanto decantata "ricostruzione" sta mostrando il suo volto fallimentare quanto vorace: le multinazionali appaltatrici lucrano miliardi di dollari, dando salari da cinque dollari ai lavoratori afgani e gli stessi lavori di ricostruzione di strade, ospedali, asili, acquedotti, infrastrutture, canali d'irrigazione, sono lenti, parziali, disastrosi... così come denunciato da un rapporto di Corp Watch, un osservatorio di monitoraggio sull'operato delle multinazionali. Tale rapporto è estremamente chiaro: "Il controllo della qualità dei lavori è al minimo; gli appaltatori sanno che basta dare una mano di vernice fresca a un edificio fatiscente e presentare il conto, e che raramente saranno sollevate obiezioni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ospedali, cliniche e scuole che cadono a pezzi, autostrade nuove già logorate e pericolose, un sistema agricolo 'modernizzato' che ha lasciato i contadini più poveri di prima (...) La decisione di impiegare milizie e signori della guerra nella ricostruzione ha rafforzato il loro potere, minando ancora di più il governo democraticamente eletto e incentivando l'insurrezione alimentata dai taliban (...) mentre il narcotraffico è in piena espansione".
Tutte cose del tutto evidenti e risapute, da sempre; eppure le obiezioni sollevate dalla sinistra governativa invece che contro le direttive interventiste della Nato, sembrano indirizzarsi piuttosto nei confronti dell'opposizione alla guerra che, finalmente, comincia a rivendicare il ritiro delle truppe italiane non solo dall'Iraq ma anche dall'Afganistan.
Ma il tempo stringe, per tutti.
U.F.