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Umanità Nova, n 21 dell'11 giugno 2006, anno 86

La fine dell'universalismo tra Bin Laden e Bush
Dal Mc Mondo ai teocon


L'anno appena trascorso ci ha regalato un'ulteriore escalation nel senso del temuto (a parole) ed auspicato (nei fatti) "scontro di civiltà. Le manifestazioni che hanno scosso negli scorsi mesi i paesi islamici contro le "vignette sataniche" e i reiterati appelli della galassia teo-con in Occidente perché l'occidente ritrovi le sue radici cristiane e si attrezzi a combattere per difenderle, ci consegnano uno scenario di inizio secolo con il quale in pochi avrebbero pensato di dover avere a che fare anche solo quindici anni fa. Una parte non indifferente delle classi dominanti europee ed americane ha infatti sposato una retorica anti universalistica che sembrava seppellita dal progetto globalizzante del Mc Mondo. In fondo fino a pochi anni fa la proiezione che si aveva dello scontro tra occidente ed élite locali restie ad accettare l'apertura dei mercati e l'egemonia della cultura relativista occidentale era quella del conflitto tra un'idea di società aperta e liberale e quella di società chiuse al proprio interno e basate su di un ordine tradizionale che il capitalismo trionfante stava definitivamente distruggendo. La "fine della storia" raccontataci da filosofi di corte come il nippo-americano Fukuyama voleva significare che l'ordine capitalistico, basato sul consumo, sulla tolleranza degli stili di vita e delle opinioni politiche e sulla cancellazione di qualsiasi legame umano o sociale non mediato dal mercato, era ormai l'orizzonte ultimo dell'umanità; la caduta del muro di Berlino non aveva posto fine solamente all'ultima perniciosa utopia egualitaria e nemica del mercato, era anche la base sulla quale iniziare un'offensiva che avrebbe distrutto legami tradizionali e gerarchie locali giustificate da questi ultimi. Senza più lo spauracchio dell'Unione Sovietica sembrava che il blocco occidentale dovesse procedere a smantellare tutte le élite locali del Sud del mondo il cui appoggio era stato necessario durante la Guerra Fredda ma che ora diventavano inutili e dannose, un ostacolo sulla strada dell'unificazione occidentale (e in specifico americana) del mondo. In effetti la prima fase della globalizzazione, quella che grosso modo inizia tra le sabbie dell'Iraq nel 1991 e finisce con l'impatto dei due aerei di linea contro le Torri Gemelle, ha alcuni aspetti di questa "crociata capitalistica". In realtà, però, i paesi occidentali e gli USA in primis, preferiscono ancora la strada dell'accomodamento con le élite locali e la contrattazione sull'apertura dei loro mercati. Ci vorrà la precipitazione dello scontro nella ex Jugoslavia nel 1998 -99 per vedere le fanterie occidentali farsi protagoniste di questa operazione di repulisti degli ingombranti arnesi sopravvissuti alla fine della Guerra Fredda. Proprio la guerra in Jugoslavia segnerà, però, anche il limite di quest'ideologia, dal momento che diventerà chiaro a tutto il mondo che le classi dominanti euro-americane sono interessate esclusivamente a trovare élite locali che garantiscano l'assoggettamento dei propri paesi senza proporre in contropartita nessuna modernizzazione che assicuri alle nuove élite dei paesi del sud del mondo la possibilità di giocare in proprio sui mercati mondiali. D'altra parte, nonostante l'invenzione dell'ideologia dei diritti umani come copertura alle guerre per l'apertura di nuovi mercati, diventerà altrettanto chiaro ai dominanti occidentali che le promesse di consumo e di tolleranza negli stili di vita non mobilitano assolutamente nessuno e non possono essere le basi per la condivisione a livello di massa del progetto espansivo della globalizzazione. In altre parole il sud del mondo inizia a rendersi conto che la nuova americanizzazione non gli porterà alcun vantaggio, mentre i dominanti europei ed americani capiscono di mancare di solide basi di consenso all'interno delle proprie società per poter avviare una vera e propria guerra contro le resistenze alla loro espansione economica e culturale nel globo.

L'attacco alle torri gemelle di New York e la ripresa dell'Intifada palestinese contro Israele, stavolta con mezzi decisamente interni alla logica dello scontro armato, segnano l'affermazione a livello globale di una corrente di pensiero che è andata crescendo all'interno delle società islamiche, fino ad acquisire un'importanza che oggi nessuno le può negare. Il neo fondamentalismo islamista esiste da anni, è stato protagonista delle stragi di decine di migliaia di civili in Algeria nel corso degli anni Novanta del secolo appena trascorso, ha combattuto in Bosnia durante le guerre dell'ex Jugoslavia, combatte in Cecenia da ormai dieci anni contro la Russia, è in espansione in tutto il mondo islamico. Si è formato come galassia sotto l'ala degli americani durante la guerra contro l'URSS in Afganistan dove ha fatto le prove del disciplinamento della società con l'imposizione del terrore contro chi non applicava la propria versione della legge islamica, ha da sempre contatti con l'estabilishment saudita e pakistano, coinvolge soprattutto i figli delle classi medie locali maggiormente delusi dall'occidente dopo averlo provato e aver sperato che l'Europa e l'America fossero interessate allo sviluppo dei loro paesi. In qualche misura l'islam di questi gruppi è un islam semplificato fino all'osso perché costruito da una leadership fondamentalmente ignorante in senso religioso. È un islam di ritorno che serve a dare un senso e un'ideologia a una rivolta insieme modernista e rivolta al passato. Modernista perché punta a liberare i propri paesi dal giogo della dipendenza dai dominanti euroamericani, e rivolta al passato perché vede questa possibilità solamente in un ritorno a un'età mitica e a un islam mitico ricostruito in provetta che si vuole imporre a tutta la popolazione. Le stragi in Algeria come i massacri compiuti dai Talebani in Afganistan rispondono allo stesso disegno: imporre dei comportamenti a un'intera società per irregimentarla in vista del combattimento contro il nemico esterno. È impressionante come le stesse motivazioni che spingevano settori significativi di popolazione dei paesi islamici a seguire il nazionalismo arabo (piuttosto che quello indonesiano) laico e modernizzante nemmeno quarantenni fa, oggi spingano settori socialmente analoghi a sostenere una versione feroce ed oscurantista della religione islamica. Al fondo c'è sempre una necessità di riscatto e di affermazione che oggi si declina nel modo più gretto, spaventoso e regressivo possibile. D'altra parte le situazioni di crisi favoriscono questo meccanismo e la nascita di culti basati sulla salvazione piuttosto che sul ritorno ad origini mitiche e pure è un leit motiv che accompagna la storia di tutte le società e che le predispone all'impossibilità di uscire in avanti dal proprio pantano.

Se l'origine del fondamentalismo in terra islamica è fondamentalmente di tipo reattivo e data da ormai alcuni decenni, nei nostri paesi lo spazio che il fondamentalismo cristiano (sia nella forma antisemita che in quella più moderna ebraico-cristaina occidentale) sta iniziando a conquistare è sempre maggiore proprio grazie all'evidente crisi di senso determinata dall'imposizione dell'anomia mercantile in ogni interstizio della società. In società senza legame differente da quello dell'acquisto e della vendita di merci, la costruzione di senso di se e del proprio stare al mondo diventa difficile, soprattutto nel momento in cui inizia a serpeggiare la richiesta di farsi militanti di un'idea di società nei confronti del resto del mondo. Banalmente è difficile che qualcuno sia disposto a morire per il libero mercato. L'ideologia mercantile, infatti, è ideologia basata su un principio individuale ed edonistico di realizzazione personale e di soddisfazione dei desideri, e poco può concedere all'idea di sacrificio di se per un bene supremo, assolutamente necessaria in tempo di guerra. Guerra, sia ben chiaro, tanto interna che esterna, mossa contro le resistenze dei paesi del sud del mondo e delle loro élite a consegnare i loro mercati in mano all'occidente, e contro le resistenze delle stesse società occidentali a cancellare ogni traccia di bene comune e di socialità extramercantile dal loro orizzonte. La maggiore difficoltà che i dominanti occidentali incontrano in questa guerra è la costruzione di un consenso che non sia mera passività. In tempi difficili la passività non basta, i dominanti dei nostri paesi hanno bisogno di un sostegno militante alla loro azione; sostegno militante che non può certo venire da chi ritiene che il bene comune inizi e finisca dove inizia e finisce il proprio personalissimo bene. Purtroppo per "lorsignori" l'ideologia che hanno inoculato nel tessuto sociale è proprio questa, e le conseguenze del loro operato di devastazione sociale sono quelle riassumibili nella produzioni di atomi sociali incapaci sì di ribellione coordinata e di rapporto sociale, ma anche d sostegno alle politiche capitalistiche. Così, in assenza di una credibile opera di nazionalizzazione delle masse, di ritorno alle gerarchie sociali del capitalismo non ancora pienamente dispiegato, di uomini della provvidenza, settori importanti delle classi dominanti e delle loro pittoresche corti fatte di filosofi in pensione, giornalisti ed editorialisti, banchieri esperti di morale e via dicendo, recuperano le radici cristiane dell'occidente, pretendono di mettere in riga l'intera società rimproverando agli individui che la compongono sia le (poche) libertà ottenute in questi decenni, sia proprio quelle caratteristiche anomiche che hanno contributo a creare quando il Satana temuto da tutte le classi dominanti occidentali era l'insorgenza sociale delle classi lavoratrici, socialmente legate e dotate di senso di sé. Il cristianesimo rinato di Bush in America con il contorno di battaglie sempre più dure per distruggere ogni possibilità di libera scelta individuale per le classi medie e per la working class sui temi di libertà sociali e civili, il pittoresco schieramento anti aborto e anti fecondazione assistita che schiera in Italia i personaggi più incredibili attorno alle sottane di Benedetto sedici e di Ruini, sono solo gli epifenomeni di un movimento più profondo all'interno delle classi dominanti di casa nostra la cui direzione sembra essere quella di ricostruzione di una società gerarchica e molto poco liberale per sostenere in modo deciso il capitalismo occidentale. Anche questo, a ben pensarci, è un fenomeno tipico degli stati di crisi, quando esistono capitalismi nazionali incapaci di reggere il confronto sul terreno mercantile con la concorrenza che avanza. Un fenomeno del genere l'Europa lo ha già vissuto con i fascismi italiano e tedesco e con le imitazioni centro e sud europee. All'epoca furono i capitalismi sconfitti a scegliere questa strada e a puntare sulla nazionalizzazione delle masse per rispondere al capitalismo vincente e globalizzante dei paesi anglosassoni, oggi toccherà all'intero occidente?

Giacomo Catrame

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