Umanità Nova, n 22 del 18 giugno 2006, anno 86
Mentre dall'Iraq e dall'Afganistan continuano ad arrivare bare avvolte nel tricolore, seppure dietro a dense cortine fumogene si sta delineando la politica interventista del governo di centrosinistra, peraltro del tutto in linea con gli indirizzi che già erano stati definiti dal precedente esecutivo di centrodestra. La parola d'ordine a Roma, come a Londra e Washington è "ridispiegamento". D'altronde tutto questo non deve destare particolare sorpresa, dato che al ministero degli Esteri siede Massimo D'Alema, ossia colui che in un libro di memorie si era vantato di aver reso possibile nel 1999, in qualità allora di capo del governo, la diretta partecipazione italiana all'aggressione Nato in Jugoslavia. Merito peraltro riconosciuto dai vertici Usa, come testimoniano le recenti parole di Condoleezza Rice: "Qui a Washington ci ricordiamo tutti della grande credibilità sua, presidente, ai tempi del Kosovo… Abbiamo grande stima per il suo comportamento di allora e siamo certi che potremo sempre collaborare, come a quei tempi, e che lei non cambierà comportamento rispetto ad allora".
Tale politica rispetto alle missioni, di cui è previsto il rifinanziamento il prossimo 30 giugno, in realtà è quella che da tempo si è andata delineando: parziale e graduale ritiro delle truppe italiane in Iraq e conseguente maggiore impegno militare in Afganistan. Incredibilmente, soltanto adesso, certa sinistra che ha l'ambizione di definirsi radicale si sta rendendo conto di questo gioco delle tre carte, che chiunque segue criticamente le dinamiche interventiste, aveva intuito e certo non da ieri andava denunciando.
Ben due anni fa, proprio su Umanità Nova, n. 17 del 16 maggio 2004, era possibile leggere: "Ma se in Afganistan è del tutto palese lo stato di guerra conseguente all'aggressione imperialista, l'intervento militare italiano in tale area continua ad avere l'approvazione del centro-sinistra, compresi i settori 'pacifisti' DS capeggiati dalla onorevole Melandri che pur prendendo le distanze dalla missione Antica Babilonia in Iraq, avallano il carattere 'umanitario' della presenza dello Stato e delle imprese italiane a Kabul. D'altra parte, anche il governo Zapatero ha prospettato la possibilità di inviare in Afganistan parte delle truppe spagnole ritirate dall'Iraq, come se le due occupazioni militari non appartenessero alla stessa strategia e non dipendessero dagli stessi comandi. Così se la politica interventista del governo Berlusconi registra non poche difficoltà interne sul fronte dell'Iraq, per quanto riguarda l'Afganistan incontra la sostanziale condivisione del centro-sinistra, tanto che l'esecutivo ha potuto decidere uno stanziamento 'per la cooperazione civile per la ricostruzione' di 140 milioni di Euro per il periodo 2004-2006, confermando la sua partecipazione militare sia all'Isaf che a Enduring Freedom ed assumendo la responsabilità operativa di una delle unità provinciali di ricostruzione (PRT) che dovrebbero 'proiettare' la presenza militare ed economica internazionale fuori dall'area di Kabul".
A puntuale conferma di tale opzione, già attuata sia dal governo spagnolo che da quello tedesco, adesso ci sono le dichiarazioni dei principali esponenti del neoinsediato governo Prodi che doveva, secondo le intenzioni proclamate in periodo elettorale, sancire anche una svolta politica in merito anche alla questione della belligeranza.
Punto primo: l'impegno militare italiano in Iraq viene ridimensionato e ridefinito, così come avverrà per quelli Usa e britannico ormai in fase di sganciamento, così come convenuto tra Bush e Blair. Era previsto che la prima tappa del disimpegno italiano vedesse già nel mese di giugno una riduzione dei militari impegnati in Iraq da 2.700 a 1.600; ma a tutt'oggi questo passaggio appare nebuloso e indefinito, dietro al pretesto farsesco dei ''tempi tecnici''. Quindi, entro la fine dell'anno -ricalcando esattamente il calendario tracciato dal precedente governo Berlusconi - tale presenza dovrebbe ridursi ancora, a circa 800-1000 effettivi, con l'incarico di tutelare e difendere le imprecisate iniziative che il governo italiano promuoverebbe "sul piano economico, civile e politico a sostegno della ricostruzione democratica dell'Iraq" così come annunciato da D'Alema e confermato dal ministro della Difesa Parisi in tour a Nassiriya.
Tale ipotesi è stata però parimenti considerata avventurista sia dagli esperti militari che, a fronte di un così ridotto contingente, ritengono impossibile e rischiosa l'assunzione di incarichi di protezione armata, sia dagli ambienti delle Ong che dovrebbero adempiere a compiti civili sotto scorta militare, esponendosi in tal modo al pericolo d'essere assimilati in tutto e per tutto alle truppe occupanti. Forse in conseguenza di tali osservazioni, l'11 giugno il ministro Parisi si è quindi spinto a sostenere che non ci sarà alcuna presenza militare italiana a difesa di una missione civile e, forse, nemmeno una missione civile.
Ma se la vicenda del ritiro dall'Iraq sta assumendo caratteri grotteschi, quella riguardante l'Afganistan è invece estremamente chiara; come ha commentato l'impareggiabile D'Alema: ''Altro che addio alle armi!''.
Quanto affermato ancora dal ministro degli Esteri, nonché vicepremier, non lascia margini di dubbio: ''La presenza dell'Italia al fianco del popolo dell'Afganistan è molto forte e continuerà in tutte le sue forme per sostenere il processo di pacificazione… noi operiamo nel quadro di decisioni assunte dalle Nazioni Unite, dell'impegno della Nato e di quello comune degli europei. È un quadro politico completamente diverso… Il nostro è un impegno non solo militare ma anche civile, visto che c'è una forte presenza della cooperazione italiana, di governo, e di tante organizzazioni non governative''.
Un'ulteriore presa di posizione della Farnesina ha confermato che per quanto riguarda la missione italiana in Afganistan ''non c'è nessuna idea di ridimensionamento'' ed, anzi, è assai probabile che questa aumenterà dato che il comando della Nato ha deciso, a partire da luglio, il raddoppio dell'organico dell'Isaf (da circa 9 mila a oltre 17 mila), dando così la possibilità di ritirare circa 3 mila militari Usa dei 23 mila attualmente in terra afgana. Davanti alle specifiche richieste del segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, rivolte all'Italia per un incremento delle truppe, nell'ambito operativo della Fase Tre della missione Nato, nonché il promesso distaccamento di 6 cacciabombardieri Amx, il governo italiano sta per il momento prendendo tempo, sia per trovare i fondi necessari sia per superare le divergenze in seno alla maggioranza; ma l'atteggiamento prevalente è quello espresso da Gianni Vernetti, della Margherita, sottosegretario agli Esteri: ''Vorrei capire se tutti quelli che dicono no alle richieste della Nato si rendono conto che noi facciamo parte di un'alleanza politica e militare. Altrimenti qual è il posto del nostro Paese nel mondo? Dobbiamo forse uscire dalla Nato? ''. Posizione questa sostenuta anche dal mite Enrico Boselli, della Rosa nel pugno, polemico contro gli ''antiamericani e i pacifisti a senso unico'' e favorevole ad un futuro ''rafforzamento dal punto di vista politico e militare'' della missione.
Per quanto riguarda le spese militari per le diverse missioni italiane in Afganistan di cui si prevede il rinnovo, queste ammontavano a 138.262.283 euro per l'Isaf-Nato più 16.235.103 euro (per la partecipazione, di secondo piano, a Enduring Freedom, Active Endeavour e Risolute Behaviour).
Sul piano parlamentare, in vista del voto blindato per il rifinanziamento delle missioni militari all'estero, se da parte del centrodestra certo non ci saranno obiezioni (Pier Ferdinando Casini ha affermato di ritenere ''legittima la decisione del governo di ritirare le truppe dall'Iraq, ma guai se la stessa opzione fosse presa anche in contesti diversi''), sicuramente provocherà non pochi malumori in seno ai partiti di governo - Prc, PdCI, Verdi - che hanno in passato rivendicato le ragioni del movimento contro la guerra: di certo non basterà un arcobaleno all'occhiello per separare la loro responsabilità politica nei confronti di scelte che certo non potranno essere accreditate come pacifiste.
U.F.