Umanità Nova, n 23 del 25 giugno 2006, anno 86
In vista del trenta giugno, quando il parlamento dovrà votare
il rifinanziamento delle missioni militari italiane all'estero, sia il
dibattito politico che i giochi tra i partiti s'incentrano soprattutto
sulle missioni in Iraq e Afganistan, principali zone di guerra
già costate la vita ad alcune decine di italiani sia militari
che civili.
Come è noto, il precedente governo Berlusconi aveva annunciato
un ritiro dall'Iraq, seppur parziale e graduato, di circa due terzi del
contingente italiano entro la fine dell'anno, in perfetta intesa con i
vertici di Washington, senza per questo dichiarare conclusa la missione
Antica Babilonia che anzi avrebbe subito una trasformazione sia da un
punto di vista operativo che numerico, dopo che aveva raggiunto le sue
maggiori dimensioni nel 2003 con circa 3.200 militari. Per l'Afganistan
si prospettava invece un rafforzamento dell'impegno italiano, sia in
termini di truppe che di presenza di aerei da combattimento Amx,
così come andava sollecitando la Nato a tutti i paesi partner
dell'Alleanza Atlantica.
Una volta vinte le elezioni, il governo di centro-sinistra si è trovato quindi nella difficile situazione di mantenere l'impegno elettorale inerente il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, confermando e accelerando degli indirizzi precedenti ma "senza introdurre irritazione con gli alleati, tanto meno con l'alleato americano" (per usare le parole dello stesso Prodi). L'Afganistan diveniva invece subito il problema più arduo da sciogliere, perché dopo averlo eluso persino evitando di citarlo nel programma di governo dell'Unione, risultava essere irrisolvibile davanti ai diversi orientamenti presenti tra i partiti di centrosinistra e sinistra. In particolare la "sinistra" dell'Unione si trovava divisa tra partiti fautori dell'interventismo "di pace" con in testa Ds, Margherita e Rosa nel pugno, e partiti contrari (Prc, Comunisti Italiani, Verdi) che avevano a loro tempo appoggiato le mobilitazioni pacifiste e che adesso, forze di governo, si ritrovano costretti a votare il rifinanziamento delle stesse osteggiate missioni di guerra.
A risolvere la lacerante contraddizione sono giunte le prese di posizione degli esperti militari e del segretario generale della Nato. I primi, sull'Iraq, hanno fatto presente che un ridotto contingente di appena un migliaio di soldati non potrebbe garantire alcuna protezione a team civili incaricati di partecipare alla ricostruzione del paese; il segretario Jaap de Hoop Scheffer, invece, chiedeva all'Italia un aumento sostanziale del proprio ruolo militare in Afganistan nell'ambito della missione Isaf-Nato sempre più impegnata a far fronte alle esigenze belliche nel sud del paese da tempo sotto il controllo dei guerriglieri.
Così, colte le due balle al balzo, il governo Prodi-D'Alema ha annunciato, per bocca del ministro della Difesa Parisi, la propria intenzione di richiamare in patria tutte le truppe presenti in Iraq anche qualche mese prima del termine già indicato da Berlusconi, cioè la fine dell'anno, mettendo in forse anche la possibilità di realizzarvi progetti civili di cooperazione e assistenza umanitaria. Davanti, invece, alla pressante richiesta della Nato per l'Afganistan il governo per il momento rispondeva picche, mettendo in una difficile posizione i ricalcitranti sinistri in disaccordo sul rinnovo della missione.
A questo punto i giochi appaiono definiti.
Il governo italiano deciderà di completare in due tempi l'annunciato e già autorizzato ritiro dall'Iraq e confermerà i finanziamenti per la scottante missione in Afganistan e quelle in altre aree di crisi (Balcani, Palestina, Sudan…), riservandosi in seguito di potenziarle o meno; emblematiche in tal senso le parole di D'Alema che, alla vigilia dell'incontro con il sottosegretario di stato americano, Condoleezza Rice, ha prospettato per l'Afganistan "un incremento della presenza militare", sia pure "entro ambiti ragionevoli ed in relazione alle nostre possibilità".
Da parte loro i partiti della sedicente sinistra radicale (Prc, Comunisti Italiani, Verdi), rivendendo come loro merito il ritiro dall'Iraq, così come l'aver "bloccato" l'invio di altri militari in Afganistan, potranno quindi votare a favore - tutt'al più con qualche astensione o voto contrario a titolo personale - del finanziamento delle missioni militari "di pace", nella definizione accreditata anche dal presidente Napolitano.
Come ulteriore premio di consolazione per le dirigenze di tali partiti e verso l'elettorato contrario alla guerra, il governo ha concesso l'apertura di un tavolo comune di confronto sulla natura delle missioni "di pace" sotto l'egida dell'Onu, sul bilancio dell'intervento in Afganistan, nonché l'organizzazione di una specifica conferenza internazionale di pace, l'adozione di un piano di aiuti e maggiori risorse per aiutare le popolazioni.
Di conseguenza, il governo di centrosinistra deciderà di ritirarsi dall'Iraq secondo il calendario e i modi meno sgraditi al governo degli Stati Uniti (da 2.900 a 1.600 entro giugno, in autunno il completo rimpatrio), mentre i soldati italiani resteranno in Afganistan con la Nato ad occupare militarmente un paese devastato e a fare la guerra su delega Usa. Di guerra guerreggiata infatti si tratta, dato che per gli inizi dell'estate è annunciata una controffensiva delle forze militari Usa e Isaf-Nato contro le insorgenze e la guerriglia filotalebana che ogni giorno che passa appaiono più forti, così come cresce la rivolta popolare; controffensiva già avviata in queste settimane con l'operazione Mountain Thrust, con oltre 11 mila militari della coalizione impegnati a largo raggio dal sud al nord, in quella che è ritenuta la maggiore campagna attuata dalla fine del 2001.
Al tavolo della politica estera italiana, siede però un convitato di pietra con cui la sinistra dovrà fare i conti: il nemico.
KAS