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Umanità Nova, n 26 del 3 settembre 2006, anno 86

Dalle bombe alla pace armata
Il buio sul Libano


L'estate del 2006 sarà tristemente ricordata dai libanesi, che da oltre trent'anni si trovano al centro di ogni destabilizzazione politica nel medio oriente mediterraneo. Mille morti, quasi un milione di profughi interni, sacrificati dalla scriteriata scelta del governo israeliano del premier Olmert e del suo Ministro della guerra, il laburista Amir Peretz, leader del grande sindacato Histadrut, di scatenare una ennesima guerra dagli esiti tuttora incerti, se non per le vittime, compresi i 150 cittadini israeliani tra civili e il centinaio di soldati del fu-invincibile Tsahal.

Ma prima di ricapitolare gli eventi occorsi per ricavarne quale indicazione, è necessario premettere due antefatti.

Il conflitto in Iraq, l'assassinio di Hariri, il ritiro siriano dal Libano

Il primo. Il 2003 è segnato dalla guerra unilaterale anglo-americana all'Iraq, stato sovrano nonché dittatoriale dagli anni settanta. La Francia oppone all'ONU una strenua battaglia per starsene fuori (insieme alla Germania dell'allora cancelliere Schroeder ed all'Italia di Berlusconi, che infatti rientrerà nel gioco a "missione compiuta", dopo il 1 maggio, quando inizieranno i morti veri e propri) finendo col risultare un po' isolata ma soprattutto invisa all'amministrazione Bush. L'occasione per rientrare nelle sue grazie sono gli accordi di Taif dell'anno successivo, quando le fazioni libanesi trovano un faticoso compromesso di unità nazionale. La Francia coglie l'opportunità per scalzare i siriani dal protettorato loro concesso nel 1983, all'indomani dell'invasione israeliana guidata dall'allora ministro della difesa Sharon (costretto a dimettersi per responsabilità indiretta dopo i massacri di Sabra e Chatila compiuti col benestare di Israele dai falangisti cristiani loro alleati). 

Il 2 settembre 2004, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu vara la risoluzione n.1559 con la quale sancisce il riconoscimento internazionale degli accordi libanesi, invocando l'uscita di forze armate straniere dal suolo libanese, ossia i siriani (gli israeliani ne erano usciti unilateralmente nel 2000, con la scelta obbligata di Barak), nonché con lo smantellamento e il disarmo delle milizie locali, ossia Hitzbullah, che nel frattempo, firmataria degli accordi, diventa con tutti gli auspici internazionali un legale e legittimo partito politico (confessionale, più che clanico) tra i tanti in Libano.

L'assassinio l'anno successivo del ex premier miliardario e filo-francese Hariri, attribuito ai servizi siriani, fa precipitare la situazione obbligando la Siria a ritirarsi dal paese, che conta così di ritrovare la libertà piena perduta da oltre trent'anni. In realtà, la mossa francese e dell'Onu viene interpretata diversamente a Tel Aviv, e in questo 2006 ne capiamo le ragioni: terra libera per ridisegnare la mappa politica del medio oriente, senza più l'ostacolo immediato della Siria. Ma senza fare i conti con i 13mila razzi in dotazione di Hitzbullah.

La bomba iraniana

Il secondo. Lo scorso 1 giugno, i cinque paesi membri permanenti del CdS dell'Onu, più la Germania, offrono una piattaforma di accordo all'Iran sull'arricchimento dell'uranio a scopi pacifici: una serie di misure assistenziali tecnologiche, la promessa dell'ingresso rapido nella WTO, la fornitura di know how civile, negoziati multilaterali e addirittura bilaterali con gli Usa, in cambio della ripresa della collaborazione iraniana con la missione istituzionale di monitoraggio da parte dell'AIEA di Vienna e quindi dell'abbandono del sogno nucleare (militare) da parte del regime teocratico dei mullah iraniani (i quali si sentono circondati alle proprie frontiere da potenze nucleari e non capiscono perché tutti gli altri sì, e loro no: Israele, Russia, Cina, Pachistan e India, queste ultime in palese ma tollerata violazione del Trattato di non proliferazione, senza contare la Turchia con le basi nucleari americane). Il 6 giugno la proposta viene presentata ai plenipotenziari iraniani che il 15 rispondono in modo interlocutorio manifestando apprezzamento per il passo concreto in avanti, il che fa ben sperare per l'uscita dal tunnel pericoloso in cui il mondo si stava cacciando. A distanza di meno di un mese, tale proposta viene sepolta, non solo dalla risoluzione Onu che obbliga l'Iran entro il 31 agosto a dichiarare la moratoria nucleare, ma soprattutto dal terremoto che questa estate ha stravolto l'area, a partire dal 12 luglio. Infatti un Iran riappacificato con la comunità internazionale smonta l'alibi della sua minaccia missilistica e nucleare contro la democrazia israeliana, peraltro non più l'unica nell'area del mondo arabo, dopo le elezioni libanesi, palestinesi e irachene.

Scaramucce tra l'esercito israeliano e le milizie sciite libanesi sono state all'ordine del giorno, senza vittime da quando Israele si è ritirato al di qua della Linea blu che divide i due paesi. Tra il contenzioso ancora da risolvere, vi sono i detenuti libanesi in Israele, che attendono invano la libertà dal 2000, secondo un principio per cui i prigionieri vengono rilasciati dopo la cessazione del conflitto (a parte chi si è macchiato di atroci crimini di guerra, ma non è questo il caso). Piuttosto, Israele considera Hitzbullah una formazione terroristica, con la curiosa caratteristica di avere parlamentari e ministri a Beirut e godendo di un consenso popolare sia pure localmente territorializzato nel sud.

Il pretesto per la guerra

L'occasione di catturare due soldati di Tsahal, impegnato apparentemente a reinvadere la striscia di Gaza ormai sotto il controllo di Hamas, anch'essa formazione terrorista che però ha vinto libere elezioni democratiche in Palestina, era considerata dal Partito di dio uno sprone a scambiare detenuti: nessuno si aspettava la sproporzionata reazione militare di Israele, in realtà pianificata dallo stesso Sharon anni addietro e sepolta nei cassetti dello stato maggiore. Inoltre, come è d'uopo in Israele sin dal 1948 anno della sua fondazione trapiantata in un Medio oriente non certo disabitato e desertico di uomini e donne, ogni nuova leadership cerca e trova legittimazione non solo nel classico procedimento elettorale, bensì e soprattutto in un bagno di sangue, possibilmente altrui, dato la strapotere militare di Tsahal. Conti fatti, questa volta, senza l'oste della resistenza sciita e libanese, che si è stretta all'unisono intorno al Partito di dio pur non amandolo né amando le sue inclinazioni integraliste e le sue protezioni (e remunerazioni) siriane e, soprattutto, iraniane.

Ai sensi del diritto internazionale, per quel che vale in un'area dove ogni risoluzione dell'Onu dal 1948 in poi non ha avuto applicazione – e specialmente dopo l'annessione di fatto nel 1967 manu militari della Cisgiordania, a tutt'oggi non riconosciuta dalla comunità internazionale e di proprietà del regno di Giordania, forse futura terra dello stato di Palestina – Israele aggredisce il 12 luglio il Libano, stato sovrano membro delle Nazioni Unite, bombardandolo dal cielo, da terra e dal mare con il deliberato intento di schiacciare ogni possibilità di rilancio nazionale: vengono colpite, come enunciano i dettami della strategia militare post-1989, le infrastrutture civili di un paese a mala pena ripresosi da un conflitto intestino durato trent'anni, che non ha certo risorse proprie per ripristinarle e quindi l'obiettivo israeliano, lungi dall'essere Hitzbullah, è riportare il Libano ad una condizione in cui la dipendenza dagli aiuti esteri, governativi e/o faziosi, blocchi il processo di unità nazionale favorendo la ripresa del conflitto intestino in base all'afflusso dei fondi per la ricostruzione, parte per parte.

Il Libano è in ginocchio ma Tsahal non vince

L'aggressione comporta qualche crimine di guerra, come il diniego dei corridoi e dei convogli umanitari, bloccati militarmente; come l'uso, a quanto pare, di bombe al fosforo, vietate, e l'uso altrettanto bandito di bombe a frammentazione e a scoppio ritardato; come la strage di civili e minori a Canaa, l'uccisione per errore dei caschi blu dell'Unifil avendo bombardato per la seconda volta la base - la prima volta fu il governo dell'immediato dopo-Rabin, all'indomani del suo omicidio, guidato dal Premio Nobel per la pace Peres che si giocò la vittoria proprio facendo bombardare la base Unifil che ospitava profughi libanesi e palestinesi, tanto per cambiare.

Come recitano quegli stessi manuali militari, le guerre aeree non portano alla vittoria, e Tsahal dopo un mese di perdite inusitate e di scacchi subiti dalle milizie sciite, si ritira senza nemmeno aver riportato a casa i due soldati sequestrati, pretesto per lo scatenamento dell'offensiva. In effetti, l'intento era quello di innescare un cambio di regime nell'area, sbaragliando Hitzbullah, sottomettendo il Libano come nuovo protettorato pro-israeliano in toto, e mettendo una pedina in più nel gigantesco mosaico americano di riscrittura del Medio oriente con il controllo delle fonti energetiche vitali per il suo nemico di lungo termine - la Cina che non a caso fiancheggia blandamente l'Iran, a sua volta bersaglio di medio termine dopo la campagna irachena. La destabilizzazione ne è lo strumento tattico, che Israele ha messo in campo probabilmente sovradeterminando le stesse strategie di breve periodo dell'amministrazione Bush, troppo impantanata nel fango iracheno e soprattutto nell'isolamento potente del suo unilateralismo.

L'internazionalizzazione militare del conflitto: caschi blu nel sud del Libano

Forse l'ardore di Olmert e soci non è stato ben gradito, vista la piega degli eventi, tanto è vero che gli Usa si sono spesi per rivitalizzare l'Onu (l'ambasciatore Bolton, avendone chiesto la chiusura, si è defilato e ha lasciato gli onori della cronaca al Segretario Condoglianze Rice) spedendo non sul confine israelo-libanese, attenzione, ma nel Libano meridionale, in teoria una forza multinazionale di 15mila caschi blu, forse leggermente armati e disponibili a difendersi qualora blandamente fatti segno di spari (non oltre, comunque, poiché il cap. VI della Carta, autorizza solo missioni militari di peace-keeping gradite alle parti coinvolte, non di peace-enforcing con diritto alle armi. Regole di ingaggio più robuste possono arrivare alla difesa preventiva, che rasentano le condizioni già riscontrate nelle esperienze fallimentari della Somalia, oltre a ricordare la dottrina Bush: smarrendo il limite tra peace-keeping e peace-enforcing, le truppe Unifil diventano combattenti a tutti gli effetti, stretti però dalla morsa israeliana e sciita in caso di attrito facilmente degenerabile in scontri armati violenti, con buona pace delle altisonanti dichiarazioni della Carta dell'ONU).

Pur senza intaccare il suo territorio sovrano, l'internazionalizzazione militare del conflitto mediorientale è una gravissima sconfitta israeliana, da sempre temuta e da sempre evitata, ma questa volta ingoiata non senza intenti di rivincita sanguinosa se davvero i caschi blu dovessero presidiare i suoi confini e, addirittura, addentrarsi a Gaza per ripetere tale missione nei territori occupati. Sarebbe la fine del sogno di arrogante autonomia ed elitaria distinzione di Eretz Israel, l'equivalente integralismo del sogno arabo antisemita di cancellare gli ebrei dal Mediterraneo al Giordano (proprio come raffigurano le due strisce blu della bandiera israeliana governate dalla stella di David).

L'ambiguità della risoluzione ONU

Tuttavia, la risoluzione n. 1701 dell'11 agosto scorso è sufficientemente ambigua: cessate il fuoco e tregua non sono la stessa cosa; si auspica l'assunzione di responsabilità internazionale sull'intero medio oriente, ma poi non disegna alcuna soluzione né all'annosa questione palestinese, completamente rimossa da tutti, arabi inclusi, né al conflitto in atto, né alla vicenda iraniana; pur addebitando l'inizio delle ostilità a Hitzbullah che ha catturato i due soldati in una azione illegale, auspica la liberazione dei detenuti libanesi in Israele che ne è stata la sua premessa, in un rimbalzo implicito di responsabilità originaria non certo elegante; invita le parti straniere a lasciare il suolo libanese ma dispiega l'Unifil non al confine, ma unicamente sul territorio libanese a sud del fiume Litani, ossia nella zona sciita controllata più o meno legalmente dal Partito di dio; parla del disarmo delle milizie e non della loro integrazione nell'esercito nazionale, come da sempre l'Onu auspica in situazioni del genere (in Centro america l'Onu ha gestito una missione in Guatemala che ha dato notevoli risultati e che è diventata paradigma per quel continente, con l'integrazione di guerriglieri di lungo periodo, non altrimenti rieducabili ad altre attività, nelle file di esercito e forze dell'ordine).

Insomma, il solito compromesso delle Nazioni unite a cose fatte, poco equilibrato, vago quel che basta per dare spazio ad ulteriori strappi violenti, e opaco a qualsiasi progettualità politica di pacificazione dell'area, del resto poco voluta dalla parti politiche locali, almeno una nettamente (Israele), e non cercata dalla comunità internazionale nelle sedi che dovrebbero contare. Senza pensare a dare soluzione alla questione palestinese - che nel frattempo ha colto con un ritardo di alcuni anni l'opportunità di accreditarsi con un futuro governo di unità nazionale mediato dalla piattaforma dei detenuti (Marwan Barghuti come nuovo Mandela palestinese?) con cui aiutare Hamas a riconoscere indirettamente il governo di Tel Aviv senza perdere la faccia favorendone così la transizione alla democrazia - ma soprattutto senza dare esito al diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1948, del 1967, del 1973, del 1991 ecc. ecc., sancito e ribadito (anche se magari poi non torneranno tutti), difficilmente Israele troverà sicurezza per sé, per i propri cittadini ebrei e per quelli arabi - di serie B, già, perché invece Israele concede la cittadinanza ad ogni ebreo che voglia ri-tornare dopo secoli di diaspora da qualunque parte del pianeta, per compensare un ritardo demografico nei confronti della componente araba; ma quale libertà è in grado di offrire loro se non quella di una guerra strisciante permanente per i decenni a venire?

Salvo Vaccaro

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