Umanità Nova, n 26 del 3 settembre 2006, anno 86
Votate sì al
rifinanziamento della missione in Afganistan. Io lavoro perché
ci sia. Ma se anche le mie ragioni non fossero condivise, credo che un
parlamentare possa avere opinioni diverse dalla maggioranza. Questo non
deve trasformarsi in un voto contrario. (Piero Fassino, segretario Ds)
Finalmente le missioni militari italiane all'estero hanno un inno: si
chiama "Men of peace - Uomini di pace"; l'ha scritto tale Antonio
Rossi, sull'aria dell'Inno alla Gioia di Beethoven.
La notizia è significativamente apparsa sui giornali lo stesso giorno, il 28 luglio 2006, in cui la maggioranza di centrosinistra approvava anche al Senato la legge di rifinanziamento e proroga, per altri sei mesi, delle missioni italiane all'estero, per uno stanziamento totale di 448 milioni di euro, dei quali ben 430 per spese militari.
Dopo la decisione di ritirare, entro la fine dell'anno, il contingente italiano presente in Iraq, la questione politica più controversa era quella del rifinanziamento dell'intervento militare italiano in Afganistan dove, durante l'estate, si è registrata la più grave escalation militare della guerriglia dal rovesciamento del regime talebano nel 2001, soprattutto nel sud del paese dove le parti, tra assediati e assedianti, si sono ormai invertite.
Al momento della votazione, dopo aver affermato più volte la propria incondizionata solidarietà alle forze armate, la non-opposizione di centrodestra si è assentata dall'aula per evitare di concedere la fiducia al governo Prodi, mentre -dopo innumerevoli polemiche- lo sparuto gruppo di senatori di Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani e Verdi, che, in dissenso anche con le direttive dei rispettivi partiti, avevano espresso la propria contrarietà all'intervento militare in Afganistan, hanno finito per votare il decreto governativo e, conseguentemente, avallato la sua politica interventista.
Considerevole il finanziamento relativo alla prosecuzione dell'intervento militare in Afganistan, sino a dicembre 2006: circa 136 milioni 632.000 euro per la missione Isaf-Nato, mentre il finanziamento per la partecipazione ad Enduring Freedom -a guida Usa- e alla missione ad essa collegata Active Endeavour -attiva nel Mediterraneo in ambito Nato- è passato dai 13 milioni 437.521 euro del primo semestre 2006 a 25 milioni 569.180 euro previsti per il secondo.
La rinnovata presenza militare italiana in Afganistan assommerebbe complessivamente a 2.388 effettivi, con un primo incremento di circa 230 unità, appartenenti a corpi speciali.
Dal 31 luglio, l'Isaf-Nato ha rilevato i reparti di Enduring Freedom
in sei province meridionali dove più aspri sono i combattimenti,
e da agosto il turno di comando è passato agli Usa, così
che tutte le operazioni militari in Afganistan si trovano sotto la
medesima regia statunitense. In previsione dell'allargamento a sud
dell'azione operativa dell'Isaf-Nato, dallo scorso 4 maggio sono state
cambiate le cosiddette regole d'ingaggio per "rispondere al fuoco in
maniera più pesante", come dichiarato dal ministro della Difesa
Arturo Parisi, lo stesso che aveva escluso una modifica di tali regole
d'ingaggio.
Adesso, lo stesso ministero ha assicurato che le truppe italiane
resteranno a Kabul e ad Herat, e non saranno inviate nelle tormentate
province meridionali dove infuria la guerriglia, se non previa
autorizzazione governativa; ma appare chiaro che se altri reparti Nato
si troveranno in difficoltà, il contingente italiano non
potrà certo rifiutarsi di correre a dare manforte, come
candidamente rivelato dallo stesso ministro della Difesa afgano, Abdul
Rahim Vardak.
Comunque sia, né a Kabul e tanto meno nella provincia di Herat regna la tranquillità: zone di guerra erano e zone di guerra restano. In particolare nel distretto di Shindand, nella stessa provincia di Herat, la situazione non è certo pacificata, anche a causa del conflitto in atto tra i signori della guerra Amanullah Khan e Ismail Khan. Inoltre la vicinanza del confine iraniano e del Turkmenistan ha trasformato Herat in un crocevia del narcotraffico.
Dall'inizio dell'anno peraltro, in tutto l'Afganistan quasi 1.900 persone, tra cui oltre 80 militari stranieri, sono rimaste uccise; mentre, giornalmente, vengono effettuate circa 25 incursioni aeree da parte delle forze Usa e Nato per contenere l'offensiva dei combattenti afgani.
Gli stessi servizi italiani di intelligence, da parte loro, da tempo hanno preventivato una "possibile intensificazione dell'attività terroristica nei confronti di persone e interessi della Coalizione internazionale e di Isaf con maggiore esposizione anche del contingente italiano".
D'altra parte un task group di forze speciali italiane è già operativo sin dalla fine luglio a Herat, pronto a essere impiegato nelle quattro province occidentali dell'Afganistan sotto comando italiano. Tale dispiegamento è avvenuto in gran segreto e in maniera scaglionata per non aggravare i contrasti in parlamento. L'ultima aliquota era partita a metà luglio. L'impiego operativo dei corpi speciali prevede anche missioni "combat", comprese ricognizioni a lungo raggio e raccolta di informazioni. Il task group è composto da tre distaccamenti, due del 9° reggimento Col Moschin, incursori paracadutisti, e uno del Comsubin, i commandos della Marina. In tutto una quarantina di militari, compreso il personale di supporto, che non sono pochi tenendo conto che si tratta di corpi speciali. Gli incursori vengono dislocati nelle province di Herat, Ghor, Baghdis e Farah, dove sono presenti quattro team di ricostruzione provinciale (Prt), anche di altre nazioni ma sotto comando italiano. La disponibilità di corpi speciali era stata decisa oltre un anno fa, in ambito Nato, dall'allora ministro della Difesa Antonio Martino.
Così, con buona pace dei parlamentari pacifisti, più o meno dissidenti, si è conclusa la farsa tragica del voto di rifinanziamento alla missione in Afganistan e l'unico vero vincitore appare essere il comando Nato, dato che l'Italia continua ad assicurare il suo ruolo di primo piano nella missione Isaf e già il numero dei soldati impiegati in terra afgana è stato accresciuto, così come richiesto dal segretario dell'Alleanza.
L'Italia continua ad essere in guerra, come prima, più di prima; nonostante che, sulla base di un sondaggio Ispo, al luglio 2006, la maggioranza (circa il 63%) degli intervistati, sia "di destra" che "di sinistra", era favorevole al ritiro delle truppe italiane dall'Afganistan (si veda L'osservatorio di R. Mannheimer, sul «Corriere della sera» del 18 luglio scorso).
Ci sarebbero quindi ottime ragioni e considerevoli spazi per una ripresa del movimento contro la guerra, ma questo dovrà dimostrare tutta la sua autonomia e volontà d'agire, per costringere questo governo ad uscire subito dalla belligeranza e dall'Afganistan: senza se e senza ma, come veniva affermato in ogni piazza cinque anni fa.
La parola, quindi, passa all'antimilitarismo e all'opposizione sociale.
U.F.