Umanità Nova, n 26 del 3 settembre 2006, anno 86
In linea di massima, si può facilmente condividere un'affermazione secondo la quale un impoverimento linguistico rischia seriamente di provocare un inaridimento culturale. Né si hanno particolari difficoltà nell'ammettere che l'inglese parlato dai non anglofoni sia, per la grande maggioranza di questi ultimi, una lingua meno ricca rispetto a quella "vera", cioè l'Inglese. Detto questo, si può anche osservare - senza tema di stupire - che pure quello parlato dalla maggioranza dei madrelingua non è l'Inglese. Del resto, quest'ultima considerazione può essere tranquillamente estesa all'Italiano.
In questo ragionamento costruito un po' "a saltoni", si potrebbe inserire arbitrariamente - e me ne scuso - la questione degli stranieri; non senza precisare che parlando di stranieri si vuole (probabilmente) intendere gli stranieri extracomunitari, più precisamente i non "occidentali" e soprattutto quelli poco (o per nulla) occidente-compatibili. Verrebbe da ipotizzare che l'incontro fra persone che parlano lingue diverse sia occasione di reciproco arricchimento, anche dove l'inglese si imponga, inizialmente e per necessità, come lingua mediatrice. Ammetto che, nell'attuale quadro sociale politico e culturale (o meglio ideologico), l'ipotesi risulti quantomeno ingenua. Insomma, non è certo "realistico" parlare di reciproco arricchimento linguistico-culturale (quindi concettuale, simbolico, esperienziale, ecc.), nonché di espansione dell'universo di pensabilità, nel bel mezzo del celebrato "scontro di civiltà". Ma pur volendo essere "realistici", difficilmente si arriverebbe a supporre che l'identità di un popolo (qualunque cosa significhi) sia messa a repentaglio dal livellamento della cultura dovuto all'impoverimento linguistico a sua volta determinato dall'utilizzo di un inglese semplificato nelle comunicazioni tra persone di lingue diverse. Difficilmente, cioè, si sarebbe stimolati a lanciare un avvertimento del tipo: «Chi si preoccupa del modo in cui integrare in Europa gli immigrati, non si dia pena: se non comprenderemo innanzitutto il significato culturale delle nostre lingue, e in secondo luogo non difenderemo opportunamente il loro valore comunicativo, saremo noi europei che ci integreremo lentamente ma inesorabilmente in un mondo che non avrà più né significative differenze culturali, né avrà nella cultura il proprio fondamento».
Ebbene, queste sono le parole usate da Stefano Zecchi nell'articolo "Ecco la lingua che uccide tutte le lingue" pubblicato in prima pagina su "Il Giornale" del 13 agosto scorso, ove si afferma che «per uno scambio culturale vero e proprio, è necessario padroneggiare bene una lingua, generalmente quella del proprio Paese», che il "globish" (l'«inglese semplificato» che «sta diventando la lingua madre del pianeta») «non consente questo scambio», e che il dominio del globish si deve all' «incruenta, anzi amichevole azione espansionistica statunitense». Per inciso: è buffo constatare che, se adottassimo gli stessi metodi di certa retorica politica, proprio da "noi" della cosiddetta sinistra antagonista potrebbe arrivare a "Il Giornale" (via Zecchi) un'accusa di antiamericanismo - dove per americani si intende ovviamente sempre e solo gli statunitensi.
La situazione sembra abbastanza preoccupante se si considera che, suggerisce sempre lo Zecchi, «[l'] integrazione tra i popoli avverrà spontaneamente; lo sosteneva, tra mille polemiche, un secolo fa, Spengler, e oggi è una facile previsione. Attraverso una lingua senza cultura, che drammaticamente renderà evidente l'inutilità della cultura per l'identità e l'emancipazione di un popolo [?]». In qualche modo, l'impoverimento linguistico zecchiano sarebbe «[u]na delle cause più significative del tramonto dell'Occidente». È questo un monito che lo Zecchi riprende dal filosofo tedesco autore proprio de "Il tramonto dell'Occidente". Tale filosofo è il noto Oswald Spengler, con il quale lo Zecchi si accompagna nella stesura dell'articolo, pur evitando di chiarire ai suoi lettori chi sia l'illustre compagno di viaggio. In effetti, Spengler risulterebbe un pensatore un po' scomodo qualora se ne ricordasse la pubblica adesione al nazionalsocialismo. Sarebbe scomodo ancorché ci si preoccupasse di sottolineare che fu un matrimonio felice solo per breve tempo, a causa di alcune differenze di vedute tra il filosofo e l'ortodossia nazista che portarono ad una separazione all'insegna di una civile convivenza. Giova inoltre ricordare che "Il tramonto dell'Occidente" fu tradotto in italiano (non per disinteressata curiosità) da Julius Evola, autorevole riferimento per l'estrema destra - filosofo della Tradizione che aderì al fascismo, benché pensasse che il fascismo fosse "troppo poco".
Dal canto suo Spengler continua ad essere un saldo punto di riferimento per certi settori del radicalismo di destra… e sembra esserlo anche per lo Zecchi, quando sostiene che «Spengler interpretava semplicemente ciò che stava accadendo con più arguzia e lungimiranza di molti studiosi, presentando un'analisi lucida e disincantata sul destino dell'Europa estremamente utile per comprendere oggi gli effetti dell'impoverimento delle nostre lingue e della cosiddetta integrazione degli stranieri che arrivano nei Paesi europei».
Per concludere, se proprio si vuol parlare di lingua e di stranieri, invece di arrivare a presagire un tramonto dell'Occidente sarebbe più serio e proficuo ragionare ad esempio sulla proposta di istituire "test di lingua e cultura italiana" per coloro che richiedono la cittadinanza. Ciò che rende interessanti tali prove è proprio il loro carattere di "test": non corsi di lingua dove la lingua viene concepita come strumento utile alle relazioni, bensì esami necessari ad attestare il grado di "italianità". Non pare azzardato supporre che attraverso i test di lingua e di conoscenza (adesione) alla cultura e ai valori (di chi?) si confidi nella promozione di individui che, per dirla con una battuta, risulterebbero più integrati (termine inquietante) di molti italiani autoctoni.
Infine, tornando allo Zecchi viene da osservare, mentre ancora molto si parla di radici culturali, che scrivendo su un quotidiano "liberale" come "Il Giornale" le radici culturali del proprio argomentare sarebbe forse più dignitoso cercarle in qualche altro orto. Ma di questo neppure "Il Giornale" stesso sembra curarsi.
Stefano Lazzaro