La guerra che Israele ha mosso quest'Estate contro il Libano si
presenta come il prologo a un disordine ben più ampio nell'area
mediorientale il cui obiettivo finale è l'Iran. L'Iran come
paese intenzionato a dotarsi degli strumenti per accedere allo status
di potenza regionale e di stato sovrano e non determinato dalle potenze
occidentali, e come componente fondamentale dell'erigendo Mercato
Comune asiatico che informalmente va costruendosi attorno alla Cina,
alla Russia e all'India. Questo accordo informale sta già
iniziando a dare i suoi frutti nei termini di aumento dell'interscambio
commerciale interno tra Russia, Cina ed India e con i paesi dell'ASEAN,
ma necessita di garantirsi una partnership stabile con uno dei
principali paesi produttori di gas e petrolio, dal momento che i
prodotti russi e quelli del centro Asia non sono sufficienti alla
spettacolare crescita dell'Estremo Oriente e che i paesi dell'ex Asia
Centrale sovietica continuano nella loro politica di buoni rapporti con
gli USA intimiditi anche dalla presenza di migliaia di soldati NATO in
Afganistan.
È del tutto evidente che gli USA non possono permettere la
formazione di un'area di scambi commerciali privilegiati che, viste le
potenzialità, potrebbe ambire a diventare l'officina del mondo
nel XXI secolo, in forma autonoma e senza la necessità di
utilizzare il capitale mobile americano per il proprio sviluppo. In
altre parole un'alleanza economica che non lavorerebbe più come
adesso esclusivamente a produrre merci a basso costo per conto terzi,
ma che diverrebbe il volano di un nuovo ciclo industriale della storia
capitalistica. Gli USA, e con loro l'Europa, sarebbero destinati a
essere marginalizzati da una prospettiva del genere e dovrebbero
diventare sostanzialmente mercati di assorbimento di merci prodotte in
Asia da produttori asiatici e con capitali asiatici. In pratica, come
nella favola dell'apprendista stregone, i capitalisti euroamericani
spingendo sul pedale dell'esternalizzazione della produzione
industriale verso l'Asia hanno avviato una dinamica di sviluppo in
proprio di paesi dotati della forza militare, della popolazione
necessaria e delle potenzialità economiche imprescindibili per
la costruzione di un capitalismo sovrano dove dominano pochi
oligopolisti e lo stato determina in modo pianificato l'espansione. In
altre parole una forma moderna del modello di sviluppo che
consentì alla Germania di diventare in trent'anni la seconda
potenza economica mondiale.
Al contrario le classi dominanti imprenditoriali euroamericane avendo
subito una torsione impressionante negli ultimi trent'anni nel senso
della ricerca del profitto immediato sul terreno della finanza,
continuano a muoversi sul terreno asiatico finanziandone lo sviluppo
per le occasioni di realizzo immediato che lì sono presenti. La
corsa delle imprese americane, europee e giapponesi a produrre in Cina
o in India, piuttosto che in Indonesia è evidente e tale
rincorsa è sempre meno controllata dai governi e dalle
leadership occidentali.
In questo quadro lo strumento individuato dal governo statunitense per
mantenere il controllo sul mercato mondiale senza per questo colpire la
produzione a basso costo asiatica della quale necessita per mantenere
bassi i salari in casa propria, è stata quella di acquisire un
signoraggio assoluto sulle materie prime necessarie alla produzione
industriale, in primis quelle energetiche. Il decennio Clinton è
stato segnato dal tentativo di mantenere tale controllo evitando il
ricorso al mezzo militare. L'intervento in Serbia è stata la
dichiarazione di sconfitta dell'intera strategia e la nascita del
modello di interventismo imperiale che sta segnando l'era Bush e gli
anni che stiamo vivendo.
Il Medio Oriente è attualmente il quadro principale, non solo
per la ricchezza gaspetrolifera ma anche per la prossimità
geografica all'Asia Orientale, dove questa battaglia si sta
combattendo. Le guerre a ripetizione nell'area messe in atto
dall'Amministrazione Bush hanno questo sfondo come riferimento nel
quale svilupparsi. La presa dell'Afganistan prima e dell'Iraq poi
servono a controllare che le risorse energetiche dell'immenso Grande
Medio Oriente, dal Marocco al Kazakistan, dalla Somalia al Pakistan e
con l'Iran giusto in mezzo non cadano in mani sbagliate: quelle dei
paesi asiatici sovrani e non subordinati al controllo americano del
mercato mondiale. I paesi europei hanno cercato e cercano parzialmente
di smarcarsi dall'aggressività della politica di Washington
anche perché sanno di essere in immediata prima linea nel caso
di un conflitto che travalichi i confini del Medio Oriente e tracimi
sulle coste settentrionali del Mediterraneo, ma non sono in grado di
esprimere una direzione alternativa a quella USA perché non sono
paesi sovrani e vengono determinati nelle loro politiche all'interno di
un quadro decisionale comune dove gli Stati Uniti sono preponderanti.
La conduzione della conferenza di Roma sul Libano dove è bastato
il veto di Washington (e della completamente asservita Gran Bretagna) a
vanificare i timidi vagiti di Francia ed Italia a favore di un cessate
il fuoco fortemente contrastato da Israele la dice lunga sui rapporti
interni alle classi dominanti occidentali. Solo quando gli Stati Uniti
si sono convinti che Israele non era in grado di chiudere la partita
militarmente con Hezbollah in breve tempo, la stessa amministrazione
USA ha deciso di imporre uno stop a Israele e di permettere il formarsi
di una forza di interposizione a guida franco-italiana e a
preponderanza nettamente europea. Senza le difficoltà israeliane
e il pantano iracheno che hanno determinato un'attitudine più
soft da parte di Washington francesi ed italiani sarebbero ben distanti
dal potersi candidare a "portatori di pace" in Medio oriente. Tutto
ciò con buona pace della presunta rinascita internazionale
europea.
Tornando alla guerra in Libano e al suo prologo in Palestina bisogna
sottolineare come i pretesti addotti da Israele per l'inizio delle
operazioni siano per l'appunto tali; il rapimento del soldato di Tsahal
che ha scatenato l'offensiva contro i civili palestinesi nella Striscia
di Gaza è avvenuto ad opera di un gruppo i miliziani palestinesi
tuttora ignoto e la reazione che ha visto anche l'arresto di deputati e
ministri del governo di Hamas ha di fatto impedito qualsiasi
trattativa. Trattativa che Israele evidentemente non vuole visto che
l'offensiva in Palestina segue al primo documento con il quale la
dirigenza imprigionata di Hamas riconosceva il diritto all'esistenza
dello stato ebraico. Stiamo parlando del "Documento dei prigionieri"
sottoscritto dai principali esponenti sia dell'OLP che di Hamas
attualmente ospiti delle galere israeliane all'interno del quale si
determinavano le linee che il governo Hamas avrebbe dovuto seguire
nelle trattative con Issale. Per la prima volta esponenti di Hamas non
parlavano più di una tregua di lungo periodo ma di una vera e
propria pace con Israele. Tutto ciò naturalmente era
inaccettabile per Tel Aviv in questa fase perché avrebbe voluto
dire rinunciare a rifiutare qualsiasi trattativa con il governo
palestinese con il pretesto delle "terroristicità di Hamas".
Oggi Israele non pretende più di annettersi tutti i territori
occupati ma accetta di evacuarne solo una piccola parte nella quale
dovrebbe sorgere uno stato bantustan palestinese senza alcuna
sovranità, dipendente dall'aiuto estero e sottoposto allo
stretto controllo militare di Tel Aviv: in pratica la soluzione Gaza un
po' più allargata. È ovvio che per fare accettare tale
pillola ai palestinesi Israele necessiti di un Quisling deciso a
vendere ogni libertà del proprio popolo per vantaggi personali.
A oggi né Arafat né Abu Mazen, per quanto piuttosto
comprensivi con le esigenze di Tel Aviv hanno accettato di giocare
questo ruolo; il governo di Hamas tanto meno, con l'aggravante di
essere molto più rispettato e credibile di quelli corrotti
dell'OLP. Per questo Israele ha scatenato un'offensiva il cui scopo
è quello ancora una volta di impedire trattative vere con i
palestinesi.
L'offensiva israeliana in Palestina, però, non deve essere vista
solamente come proiezione delle necessità interne allo stato
ebraico ma come azione volta a promuovere la strategia americana
nell'area in un momento di gravi difficoltà dovute alla
resistenza irachena e all'impossibilità di promuovere una nuova
guerra contro l'Iran. Come molti commentatori dimenticano, infatti,
Israele non è uno stato sovrano. Esso infatti necessita
dell'integrazione militare ed economica con gli Stati Uniti per
sopravvivere. Non si tratta solo del materiale bellico e del sostegno
militare, quanto dell'apertura americana ai prodotti tecnologici
israeliani e della costante politica di sostegno finanziario che
Washington mette in atto nei confronti di Tel Aviv. Quest'ultima si
trova all'interno di un contesto ostile dove va considerata non come
parte del Medio oriente, ma come una colonia euroamericana nella zona.
Le sue capacità tecnologiche ne farebbero uno stato con buone
capacità di integrazione in Medio oriente ma lo stato di guerra
permanente con i suoi vicini ne impedisce qualsiasi espansione
economica. Per gli USA Israele deve essere uno stato di questo genere
perché in questo modo ne mina la sovranità e ne impedisce
l'integrazione nell'area avendo così a disposizione un
formidabile alleato costretto a muoversi nel senso desiderato dalla
Casa Bianca a prescindere dagli interessi locali.
Per gli USA è oggi necessario colpire Hamas perché
quest'ultima è venuta a comporre una variegata alleanza composta
da tutti i soggetti locali che rifiutano la semisovranità
proposta dagli USA per gli stati locali. L'Iran, la Siria, i
nazionalisti iracheni, Hamas ed Hezbollah sono oggi necessariamente
alleati nonostante le differenze esistenti che ne farebbero
necessariamente dei feroci nemici se non ci fosse un comune nemico ad
avvicinarli. Colpire Hamas vuole dire per Washington cercare di
chiudere la vicenda palestinese con la creazione di uno staterello
sotto controllo israeliano che non crei problemi al controllo americano
dell'area e che soprattutto non abbia velleità sovraniste.
Allo stesso modo l'offensiva israeliana in Libano è stata
più un modo per gli USA di fare la guerra per interposta persona
all'Iran colpendone il principale alleato locale che non una
necessità israeliana vera e propria. Anche qui il rapimento di
due soldati assume l'aspetto di un pretesto dal momento che da anni
Israele ed Hezbollah si scambiano prigionieri quando i guerriglieri
libanesi arrivano a rapirne qualcuno. La verità è che
Israele ha dovuto entrare in guerra in Libano per colpire l'Iran.
Questo sia per interessi propri, attaccare l'unico paese che potrebbe
diventare una potenza regionale concorrente, sia soprattutto
perché gli USA non sono oggi in grado di gestire una seconda
guerra contro l'Iran a partire da un Iraq non pacificato e, quindi,
necessitavano che il fedele alleato locale mettesse in atto una
politica che necessariamente porterà al coinvolgimento iraniano
nel conflitto. L'intenzione di Tel Aviv sarebbe stata quella di
spazzare via Hezbollah dalla scena e di distruggere le infrastrutture
che avevano fatto del Libano in questo decennio di pace un paese
moderno. Ottenere un Libano piegato ed umiliato in mano ad una
dirigenza subordinata agli USA e timorosa delle possibili aggressioni
israeliane era l'obiettivo immediato di Tel Aviv che pensava di
raggiungerlo innanzitutto macellando le milizie sciite. L'obiettivo a
medio termine era invece quello di umiliare la Siria che si vedrebbe
circondata esclusivamente da stati ostili e dove presumibilmente si
rafforzerebbe l'attività dell'opposizione anti Assad in quota
CIA, e di costringere l'Iran a scegliere tra l'abbandono delle proprie
ambizioni e la fuga verso una guerra spaventosa e distruttiva nella
quale Israele potrebbe anche decidere (dietro consenso di Washington)
di usare l'atomica per impedire i progetti nucleari di Teheran.
La situazione attuale è ancora confusa perché l'esercito
di Israele è stato sconfitto nel suo obiettivo immediato: le
milizie di Hezbollah hanno resistito alla forza d'urto di Israele e
sono riuscite a impedirgli di conquistare le proprie città
fortino nel sud del Libano dalle quali hanno continuato a rispondere ai
bombardamenti israeliani con un fitto lancio di razzi che, ovviamente
non hanno fatto che un millesimo dei danni inflitti da Tel Aviv, ma che
rivestono un'importanza sostanziale nella guerra psicologica sulla
sicurezza interna dello stato ebraico.
La situazione in questo momento rimane complessa: Israele e le milizie
sciite stanno entrambe leccandosi le ferite della guerra estiva, l'Iran
è rientrato in gioco grazie anche al riconoscimento ottenuto in
sede ONU, l'Europa sta provando a giocare un ruolo di pacificatore e
mediatore in Medio Oriente con un profilo parzialmente sganciato da
quello USA. Nonostante i proclami delle sinistre, però, non
credo che questa spedizione segni la nascita di un imperialismo europeo
indipendente da quello americano né che il mondo sia uscito
dalla logica unipolare per rientrare ai tempi del multipolarismo. Credo
piuttosto che all'interno del cuore profondo delle classi dominanti
occidentali si agitino problemi sempre maggiori di rapporto reciproco
che potrebbero rimandare nel giro di uno o due decenni all'avvio di un
confronto vero tra la superpotenza e gli attuali alleati semisovrani.
Perché questo avvenga, però, è necessario prima
che l'attuale ordine mondiale si rompa in modo definitivo facendo
saltare le attuali compatibilità tra dominanti. Cosa che, per
ora, non è all'ordine del giorno.
Giacomo Catrame