Umanità Nova, n 27 del 10 settembre 2006, anno 86

La guerra in Libano: una partita aperta
L'Iran nel mirino

La guerra che Israele ha mosso quest'Estate contro il Libano si presenta come il prologo a un disordine ben più ampio nell'area mediorientale il cui obiettivo finale è l'Iran. L'Iran come paese intenzionato a dotarsi degli strumenti per accedere allo status di potenza regionale e di stato sovrano e non determinato dalle potenze occidentali, e come componente fondamentale dell'erigendo Mercato Comune asiatico che informalmente va costruendosi attorno alla Cina, alla Russia e all'India. Questo accordo informale sta già iniziando a dare i suoi frutti nei termini di aumento dell'interscambio commerciale interno tra Russia, Cina ed India e con i paesi dell'ASEAN, ma necessita di garantirsi una partnership stabile con uno dei principali paesi produttori di gas e petrolio, dal momento che i prodotti russi e quelli del centro Asia non sono sufficienti alla spettacolare crescita dell'Estremo Oriente e che i paesi dell'ex Asia Centrale sovietica continuano nella loro politica di buoni rapporti con gli USA intimiditi anche dalla presenza di migliaia di soldati NATO in Afganistan.
È del tutto evidente che gli USA non possono permettere la formazione di un'area di scambi commerciali privilegiati che, viste le potenzialità, potrebbe ambire a diventare l'officina del mondo nel XXI secolo, in forma autonoma e senza la necessità di utilizzare il capitale mobile americano per il proprio sviluppo. In altre parole un'alleanza economica che non lavorerebbe più come adesso esclusivamente a produrre merci a basso costo per conto terzi, ma che diverrebbe il volano di un nuovo ciclo industriale della storia capitalistica. Gli USA, e con loro l'Europa, sarebbero destinati a essere marginalizzati da una prospettiva del genere e dovrebbero diventare sostanzialmente mercati di assorbimento di merci prodotte in Asia da produttori asiatici e con capitali asiatici. In pratica, come nella favola dell'apprendista stregone, i capitalisti euroamericani spingendo sul pedale dell'esternalizzazione della produzione industriale verso l'Asia hanno avviato una dinamica di sviluppo in proprio di paesi dotati della forza militare, della popolazione necessaria e delle potenzialità economiche imprescindibili per la costruzione di un capitalismo sovrano dove dominano pochi oligopolisti e lo stato determina in modo pianificato l'espansione. In altre parole una forma moderna del modello di sviluppo che consentì alla Germania di diventare in trent'anni la seconda potenza economica mondiale.
Al contrario le classi dominanti imprenditoriali euroamericane avendo subito una torsione impressionante negli ultimi trent'anni nel senso della ricerca del profitto immediato sul terreno della finanza, continuano a muoversi sul terreno asiatico finanziandone lo sviluppo per le occasioni di realizzo immediato che lì sono presenti. La corsa delle imprese americane, europee e giapponesi a produrre in Cina o in India, piuttosto che in Indonesia è evidente e tale rincorsa è sempre meno controllata dai governi e dalle leadership occidentali.
In questo quadro lo strumento individuato dal governo statunitense per mantenere il controllo sul mercato mondiale senza per questo colpire la produzione a basso costo asiatica della quale necessita per mantenere bassi i salari in casa propria, è stata quella di acquisire un signoraggio assoluto sulle materie prime necessarie alla produzione industriale, in primis quelle energetiche. Il decennio Clinton è stato segnato dal tentativo di mantenere tale controllo evitando il ricorso al mezzo militare. L'intervento in Serbia è stata la dichiarazione di sconfitta dell'intera strategia e la nascita del modello di interventismo imperiale che sta segnando l'era Bush e gli anni che stiamo vivendo.
Il Medio Oriente è attualmente il quadro principale, non solo per la ricchezza gaspetrolifera ma anche per la prossimità geografica all'Asia Orientale, dove questa battaglia si sta combattendo. Le guerre a ripetizione nell'area messe in atto dall'Amministrazione Bush hanno questo sfondo come riferimento nel quale svilupparsi. La presa dell'Afganistan prima e dell'Iraq poi servono a controllare che le risorse energetiche dell'immenso Grande Medio Oriente, dal Marocco al Kazakistan, dalla Somalia al Pakistan e con l'Iran giusto in mezzo non cadano in mani sbagliate: quelle dei paesi asiatici sovrani e non subordinati al controllo americano del mercato mondiale. I paesi europei hanno cercato e cercano parzialmente di smarcarsi dall'aggressività della politica di Washington anche perché sanno di essere in immediata prima linea nel caso di un conflitto che travalichi i confini del Medio Oriente e tracimi sulle coste settentrionali del Mediterraneo, ma non sono in grado di esprimere una direzione alternativa a quella USA perché non sono paesi sovrani e vengono determinati nelle loro politiche all'interno di un quadro decisionale comune dove gli Stati Uniti sono preponderanti. La conduzione della conferenza di Roma sul Libano dove è bastato il veto di Washington (e della completamente asservita Gran Bretagna) a vanificare i timidi vagiti di Francia ed Italia a favore di un cessate il fuoco fortemente contrastato da Israele la dice lunga sui rapporti interni alle classi dominanti occidentali. Solo quando gli Stati Uniti si sono convinti che Israele non era in grado di chiudere la partita militarmente con Hezbollah in breve tempo, la stessa amministrazione USA ha deciso di imporre uno stop a Israele e di permettere il formarsi di una forza di interposizione a guida franco-italiana e a preponderanza nettamente europea. Senza le difficoltà israeliane e il pantano iracheno che hanno determinato un'attitudine più soft da parte di Washington francesi ed italiani sarebbero ben distanti dal potersi candidare a "portatori di pace" in Medio oriente. Tutto ciò con buona pace della presunta rinascita internazionale europea.
Tornando alla guerra in Libano e al suo prologo in Palestina bisogna sottolineare come i pretesti addotti da Israele per l'inizio delle operazioni siano per l'appunto tali; il rapimento del soldato di Tsahal che ha scatenato l'offensiva contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza è avvenuto ad opera di un gruppo i miliziani palestinesi tuttora ignoto e la reazione che ha visto anche l'arresto di deputati e ministri del governo di Hamas ha di fatto impedito qualsiasi trattativa. Trattativa che Israele evidentemente non vuole visto che l'offensiva in Palestina segue al primo documento con il quale la dirigenza imprigionata di Hamas riconosceva il diritto all'esistenza dello stato ebraico. Stiamo parlando del "Documento dei prigionieri" sottoscritto dai principali esponenti sia dell'OLP che di Hamas attualmente ospiti delle galere israeliane all'interno del quale si determinavano le linee che il governo Hamas avrebbe dovuto seguire nelle trattative con Issale. Per la prima volta esponenti di Hamas non parlavano più di una tregua di lungo periodo ma di una vera e propria pace con Israele. Tutto ciò naturalmente era inaccettabile per Tel Aviv in questa fase perché avrebbe voluto dire rinunciare a rifiutare qualsiasi trattativa con il governo palestinese con il pretesto delle "terroristicità di Hamas". Oggi Israele non pretende più di annettersi tutti i territori occupati ma accetta di evacuarne solo una piccola parte nella quale dovrebbe sorgere uno stato bantustan palestinese senza alcuna sovranità, dipendente dall'aiuto estero e sottoposto allo stretto controllo militare di Tel Aviv: in pratica la soluzione Gaza un po' più allargata. È ovvio che per fare accettare tale pillola ai palestinesi Israele necessiti di un Quisling deciso a vendere ogni libertà del proprio popolo per vantaggi personali. A oggi né Arafat né Abu Mazen, per quanto piuttosto comprensivi con le esigenze di Tel Aviv hanno accettato di giocare questo ruolo; il governo di Hamas tanto meno, con l'aggravante di essere molto più rispettato e credibile di quelli corrotti dell'OLP. Per questo Israele ha scatenato un'offensiva il cui scopo è quello ancora una volta di impedire trattative vere con i palestinesi.
L'offensiva israeliana in Palestina, però, non deve essere vista solamente come proiezione delle necessità interne allo stato ebraico ma come azione volta a promuovere la strategia americana nell'area in un momento di gravi difficoltà dovute alla resistenza irachena e all'impossibilità di promuovere una nuova guerra contro l'Iran. Come molti commentatori dimenticano, infatti, Israele non è uno stato sovrano. Esso infatti necessita dell'integrazione militare ed economica con gli Stati Uniti per sopravvivere. Non si tratta solo del materiale bellico e del sostegno militare, quanto dell'apertura americana ai prodotti tecnologici israeliani e della costante politica di sostegno finanziario che Washington mette in atto nei confronti di Tel Aviv. Quest'ultima si trova all'interno di un contesto ostile dove va considerata non come parte del Medio oriente, ma come una colonia euroamericana nella zona. Le sue capacità tecnologiche ne farebbero uno stato con buone capacità di integrazione in Medio oriente ma lo stato di guerra permanente con i suoi vicini ne impedisce qualsiasi espansione economica. Per gli USA Israele deve essere uno stato di questo genere perché in questo modo ne mina la sovranità e ne impedisce l'integrazione nell'area avendo così a disposizione un formidabile alleato costretto a muoversi nel senso desiderato dalla Casa Bianca a prescindere dagli interessi locali.
Per gli USA è oggi necessario colpire Hamas perché quest'ultima è venuta a comporre una variegata alleanza composta da tutti i soggetti locali che rifiutano la semisovranità proposta dagli USA per gli stati locali. L'Iran, la Siria, i nazionalisti iracheni, Hamas ed Hezbollah sono oggi necessariamente alleati nonostante le differenze esistenti che ne farebbero necessariamente dei feroci nemici se non ci fosse un comune nemico ad avvicinarli. Colpire Hamas vuole dire per Washington cercare di chiudere la vicenda palestinese con la creazione di uno staterello sotto controllo israeliano che non crei problemi al controllo americano dell'area e che soprattutto non abbia velleità sovraniste.
Allo stesso modo l'offensiva israeliana in Libano è stata più un modo per gli USA di fare la guerra per interposta persona all'Iran colpendone il principale alleato locale che non una necessità israeliana vera e propria. Anche qui il rapimento di due soldati assume l'aspetto di un pretesto dal momento che da anni Israele ed Hezbollah si scambiano prigionieri quando i guerriglieri libanesi arrivano a rapirne qualcuno. La verità è che Israele ha dovuto entrare in guerra in Libano per colpire l'Iran. Questo sia per interessi propri, attaccare l'unico paese che potrebbe diventare una potenza regionale concorrente, sia soprattutto perché gli USA non sono oggi in grado di gestire una seconda guerra contro l'Iran a partire da un Iraq non pacificato e, quindi, necessitavano che il fedele alleato locale mettesse in atto una politica che necessariamente porterà al coinvolgimento iraniano nel conflitto. L'intenzione di Tel Aviv sarebbe stata quella di spazzare via Hezbollah dalla scena e di distruggere le infrastrutture che avevano fatto del Libano in questo decennio di pace un paese moderno. Ottenere un Libano piegato ed umiliato in mano ad una dirigenza subordinata agli USA e timorosa delle possibili aggressioni israeliane era l'obiettivo immediato di Tel Aviv che pensava di raggiungerlo innanzitutto macellando le milizie sciite. L'obiettivo a medio termine era invece quello di umiliare la Siria che si vedrebbe circondata esclusivamente da stati ostili e dove presumibilmente si rafforzerebbe l'attività dell'opposizione anti Assad in quota CIA, e di costringere l'Iran a scegliere tra l'abbandono delle proprie ambizioni e la fuga verso una guerra spaventosa e distruttiva nella quale Israele potrebbe anche decidere (dietro consenso di Washington) di usare l'atomica per impedire i progetti nucleari di Teheran.
La situazione attuale è ancora confusa perché l'esercito di Israele è stato sconfitto nel suo obiettivo immediato: le milizie di Hezbollah hanno resistito alla forza d'urto di Israele e sono riuscite a impedirgli di conquistare le proprie città fortino nel sud del Libano dalle quali hanno continuato a rispondere ai bombardamenti israeliani con un fitto lancio di razzi che, ovviamente non hanno fatto che un millesimo dei danni inflitti da Tel Aviv, ma che rivestono un'importanza sostanziale nella guerra psicologica sulla sicurezza interna dello stato ebraico.
La situazione in questo momento rimane complessa: Israele e le milizie sciite stanno entrambe leccandosi le ferite della guerra estiva, l'Iran è rientrato in gioco grazie anche al riconoscimento ottenuto in sede ONU, l'Europa sta provando a giocare un ruolo di pacificatore e mediatore in Medio Oriente con un profilo parzialmente sganciato da quello USA. Nonostante i proclami delle sinistre, però, non credo che questa spedizione segni la nascita di un imperialismo europeo indipendente da quello americano né che il mondo sia uscito dalla logica unipolare per rientrare ai tempi del multipolarismo. Credo piuttosto che all'interno del cuore profondo delle classi dominanti occidentali si agitino problemi sempre maggiori di rapporto reciproco che potrebbero rimandare nel giro di uno o due decenni all'avvio di un confronto vero tra la superpotenza e gli attuali alleati semisovrani. Perché questo avvenga, però, è necessario prima che l'attuale ordine mondiale si rompa in modo definitivo facendo saltare le attuali compatibilità tra dominanti. Cosa che, per ora, non è all'ordine del giorno.

Giacomo Catrame

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