La velocità con cui è stata decisa la fusione tra Intesa
e Sanpaolo e l'unanimità di consensi che ha accompagnato
l'operazione non hanno lasciato molto tempo alla riflessione critica
sulle sue conseguenze. Il sistema economico, il ceto politico e gli
stessi azionisti sono stati sorpresi e spiazzati, nel cuore
dell'estate, da una manovra che ha visto protagonisti soprattutto i
quattro top manager delle due banche (Bazoli e Passera, per Banca
Intesa, Salza e Iozzo, per Sanpaolo), sotto l'occhio benevolo e
condiscendente di un Prodi, molto grato di vedere nascere una forte
banca amica. Sono molto corposi gli interessi coinvolti e pesanti le
ricadute concrete di questa forte accelerazione del risiko bancario.
Cerchiamo di isolare i principali elementi del quadro e di ragionare
sui probabili esiti del riassetto societario.
La nuova dimensione europea della concorrenza e della
competitività porta in ogni settore al formarsi di agglomerati
industriali o finanziari di grande taglia, in grado di giocare un ruolo
attivo nel consolidamento paneuropeo. È una dinamica che
attraversa soprattutto i settori sinora più protetti dalle
barriere protezioniste erette dai singoli stati nazionali: banche,
assicurazioni, energia, trasporti. C'è grande fermento nel
settore dell'energia (Edf su Edison, E.on su Endesa, Enel su Suez, Gaz
de France su Suez, ecc.), altrettante in quello della telefonia
(Telefonica su O2, Orascom su Wind, Sky su Telecom Italia), pieno
tourbillon su banche ed assicurazioni.
In Italia la fragilità della struttura proprietaria e la
dimensione ridotta delle singole aziende rendono particolarmente
vulnerabili le imprese, che quando sono quotate possono essere
aggredite con molta disinvoltura dai competitori esteri più
forti e costrette a cedere il controllo. La dimensione media delle
banche italiane non era sinora riuscita a raggiungere una massa critica
sufficiente per resistere agli assalti, per non parlare della
possibilità di giocare all'estero da predatori.
Il cambio di governatore in Banca d'Italia, con l'insediamento di
Draghi, ha segnato la necessità del passaggio da una difesa
basata sull'arroccamento amministrativo (magari pecoreccio come
nell'era Fazio) alla aperta sponsorizzazione di fusioni volontarie tra
soggetti nazionali, data anche la palese sconfitta della strategia
precedente stigmatizzata dalla vittoria di Abn-Amro su Antonveneta e
dall'Opa Bnp-Paribas sulla Bnl.
Era evidente che c'era spazio per due, massimo tre, aggregati bancari
italiani, destinati a competere sulla scena europea. Il primo a
tagliare il traguardo è stato Unicredit, che comprando la
tedesca Hvb sì è trovato di colpo ad avere, oltre ad una
cospicua presenza in Germania e Austria, una capillare rete
distributiva nell'est-europeo, che sommata alle precedenti acquisizioni
in Polonia e Turchia, ne fanno un protagonista assoluto della
realtà bancaria europea. Dopo Unicredit, si davano però
varie possibili alternative: il fatto che sia nata Intesa-Sanpaolo
è in fondo un evento casuale.
Le cose infatti avrebbero potuto andare diversamente. Da febbraio 2006
Intesa aveva cominciato a corteggiare Capitalia, mentre Sanpaolo aveva
fatto lo stesso con Monte Paschi. Tutte le banche italiane hanno da
tempo soci esteri nel loro azionariato (piuttosto forti e scalpitanti)
ed il crollo della trincea difensiva "fazista" in Banca d'Italia le ha
costrette a cercare rapidamente misure preventive contro il rischio di
essere scalate. Capitalia ha però reagito male alle "avances" di
Intesa, mentre Monte Paschi ha chiesto troppo tempo al Sanpaolo per
impegnarsi in una promessa di fidanzamento. A questo punto Bazoli e
Salza, incontratisi al funerale di Desiata (l'ex presidente delle
Generali, socie al 5% nel nuovo gruppo), hanno rotto gli indugi ed
incaricato le banche d'affari di studiare l'integrazione. In poche
settimane, e in piena estate, l'annuncio ufficiale.
La nuova banca nasce come espressione dell'area politica prodiana e
come atto finale di emarginazione della area diessina, che ha consumato
nel corso del 2005 l'amara esperienza della fallita scalata a Bnl da
parte dell'Unipol (da immortalare il ridicolo e patetico "Abbiamo una
banca?" di Fassino a Consorte, intercettato dai magistrati). La
sconfitta D.S. è evidente nel fallimento della trattativa,
condotta da Iozzo, per portare il Monte dei Paschi tra le braccia del
Sanpaolo e appena attutita dal ripescaggio di un loro uomo, il d.g.
sanpaolino Piero Modiano, come d.g. della nuova banca. Tuttavia i soci
insoddisfatti e mugugnanti sono più d'uno. In primo luogo, vi
sono le banche estere, cioè il Credit Agricole (che dal 18%
passa al 9%) ed il Santander (che dal 10% passa al 5%), scontente di
vedersi diluire in una compagine azionaria dove conteranno poco.
Infatti si parla per entrambe di una strategia d'uscita e/o di cospicue
contropartite, che potrebbero includere quei 600/800 sportelli che la
super-banca dovrà cedere per non superare le soglie di
concentrazione della concorrenza previste dalla normativa anti-trust.
In secondo luogo vi sono le fondazioni locali, che rischiano di vedere
il proprio ruolo ridimensionato da un allontanamento dei centri di
potere che contano verso livelli molto più distanti dalle beghe
cittadine. Non a caso si è in extremis ripescato il modello
sanpaolino della "banca dei territori", per confermare almeno a parole
l'impegno di mantenere una sensibilità verso i presidi ed i
modelli locali. E soprattutto, per tenere calmi gli amministratori
pubblici torinesi, si è deciso di fissare a Torino la sede
legale (dove si pagano le addizionali locali), mentre le sedi operative
saranno divise tra Milano e Torino e l'amministratore delegato
sarà Corrado Passera, ex McKinsey, ex-Olivetti, ex-Poste
Italiane, ex- Banca Intesa, una fama di tagliatore di teste conquistata
sul campo.
E in ultima analisi vengono, tra gli scontenti, quelli che ne hanno le
ragioni più serie: i lavoratori. Sul piano sociale la fusione
avrà un impatto estremamente pesante. Del resto l'obiettivo
reale di ogni accorpamento bancario è sempre stato il taglio dei
costi operativi, che nelle banche per il 60% è costo del lavoro.
Infatti l'obiettivo dichiarato è di fare salire gli utili netti
da 5 a 7 miliardi di euro nel periodo 2005/2009, sfruttando 1,3
miliardi di "sinergie", che per il 40% dipenderanno da tagli
sull'organico. Quindi facendo due conti sui 500 milioni di euro da
tagliare, saltano almeno 10.000 posti di lavoro…
La partita che si apre è infatti sul come, quando e dove si
taglierà. Nel piano industriale, atteso per fine ottobre, si
comincerà a delineare la fisionomia del nuovo gruppo e si
comincerà a capire la dimensione di doppioni e duplicazioni da
abolire. Lo sfoltimento coinvolgerà più massicciamente le
sedi direzionali e amministrative centrali, mentre la rete sarà
toccata direttamente dalla cessione degli sportelli in eccesso
(rispetto all'Antitrust) e in esubero (rispetto alla redditività
economica). In questo senso è invalsa negli ultimi anni la
pratica di cedere gli sportelli con i lavoratori inclusi, in modo da
non disperdere il rapporto fiduciario tra addetti e clienti, con le
immaginabili conseguenze in tema di salvaguardia dei diritti
sindacalmente acquisiti.
Le due banche che vanno a fondersi hanno attuato in passato pratiche di
sfoltimento di organico diametralmente opposte: il Sanpaolo ha
"esodato" oltre 3.000 lavoratori, assumendo oltre 1.000 giovani,
garantendo volontarietà ed incentivi, mentre Banca Intesa ha
mandato a casa 7.000 persone con un pessimo accordo sindacale
collettivo, senza volontarietà e senza soldi. Il nuovo capo del
personale, il braccio destro di Passera Francesco Micheli,
tenterà presumibilmente di imporre a tutto il gruppo il modello
di relazioni industriali oggi vigente in Banca Intesa, dove i diritti
sindacali sono schiacciati ai livelli minimi. Lo stesso asse sindacale
ne esce profondamente trasformato e spostato, se possibile, verso una
deriva ancora più moderata. Mentre nel settore si assiste ad una
inedita e incredibile alleanza, che vede insieme confederali, autonomi,
sindacati di destra e sindacati dei dirigenti (tutti stretti in un
rassemblement con ben nove sigle), nella nuova banca assumeranno peso
prevalente gli autonomi della Falcri, in competizione con gli autonomi
della Fabi, a sua volta in procinto di entrare nella Fiba-Cisl.
È probabile quindi che la superbanca nasca dalla stretta
collaborazione tra la componente moderata del centro-sinistra e la
componente più moderata del sindacato, cercando di fare pagare
ai soliti noti (cioè i lavoratori senza santi in paradiso) i
costi economici e sociali della "razionalizzazione" delle strutture,
che punta a regalare agli azionisti un aumento dell'utile pari a quasi
il 50% in soli tre anni.
Si apre quindi uno spazio per il sindacato di base, che deve da una
parte impedire la diffusione del solito clima di panico che precede
ogni fase di ristrutturazione, dall'altra reagire all'impotenza e alla
passività che sono la naturale conseguenza di questo clima.
Agire per mantenere alto il presidio sindacale su diritti e tutele
nella fase del cambiamento è al momento la sfida più
urgente.
Renato Strumia