Umanità Nova, n 28 del 17 settembre 2006, anno 86

Banca Intesa - Sanpaolo
Fusione a presa rapida


La velocità con cui è stata decisa la fusione tra Intesa e Sanpaolo e l'unanimità di consensi che ha accompagnato l'operazione non hanno lasciato molto tempo alla riflessione critica sulle sue conseguenze. Il sistema economico, il ceto politico e gli stessi azionisti sono stati sorpresi e spiazzati, nel cuore dell'estate, da una manovra che ha visto protagonisti soprattutto i quattro top manager delle due banche (Bazoli e Passera, per Banca Intesa, Salza e Iozzo, per Sanpaolo), sotto l'occhio benevolo e condiscendente di un Prodi, molto grato di vedere nascere una forte banca amica. Sono molto corposi gli interessi coinvolti e pesanti le ricadute concrete di questa forte accelerazione del risiko bancario. Cerchiamo di isolare i principali elementi del quadro e di ragionare sui probabili esiti del riassetto societario.

La nuova dimensione europea della concorrenza e della competitività porta in ogni settore al formarsi di agglomerati industriali o finanziari di grande taglia, in grado di giocare un ruolo attivo nel consolidamento paneuropeo. È una dinamica che attraversa soprattutto i settori sinora più protetti dalle barriere protezioniste erette dai singoli stati nazionali: banche, assicurazioni, energia, trasporti. C'è grande fermento nel settore dell'energia (Edf su Edison, E.on su Endesa, Enel su Suez, Gaz de France su Suez, ecc.), altrettante in quello della telefonia (Telefonica su O2, Orascom su Wind, Sky su Telecom Italia), pieno tourbillon su banche ed assicurazioni.
In Italia la fragilità della struttura proprietaria e la dimensione ridotta delle singole aziende rendono particolarmente vulnerabili le imprese, che quando sono quotate possono essere aggredite con molta disinvoltura dai competitori esteri più forti e costrette a cedere il controllo. La dimensione media delle banche italiane non era sinora riuscita a raggiungere una massa critica sufficiente per resistere agli assalti, per non parlare della possibilità di giocare all'estero da predatori.
Il cambio di governatore in Banca d'Italia, con l'insediamento di Draghi, ha segnato la necessità del passaggio da una difesa basata sull'arroccamento amministrativo (magari pecoreccio come nell'era Fazio) alla aperta sponsorizzazione di fusioni volontarie tra soggetti nazionali, data anche la palese sconfitta della strategia precedente stigmatizzata dalla vittoria di Abn-Amro su Antonveneta e dall'Opa Bnp-Paribas sulla Bnl.
Era evidente che c'era spazio per due, massimo tre, aggregati bancari italiani, destinati a competere sulla scena europea. Il primo a tagliare il traguardo è stato Unicredit, che comprando la tedesca Hvb sì è trovato di colpo ad avere, oltre ad una cospicua presenza in Germania e Austria, una capillare rete distributiva nell'est-europeo, che sommata alle precedenti acquisizioni in Polonia e Turchia, ne fanno un protagonista assoluto della realtà bancaria europea. Dopo Unicredit, si davano però varie possibili alternative: il fatto che sia nata Intesa-Sanpaolo è in fondo un evento casuale.
Le cose infatti avrebbero potuto andare diversamente. Da febbraio 2006 Intesa aveva cominciato a corteggiare Capitalia, mentre Sanpaolo aveva fatto lo stesso con Monte Paschi. Tutte le banche italiane hanno da tempo soci esteri nel loro azionariato (piuttosto forti e scalpitanti) ed il crollo della trincea difensiva "fazista" in Banca d'Italia le ha costrette a cercare rapidamente misure preventive contro il rischio di essere scalate. Capitalia ha però reagito male alle "avances" di Intesa, mentre Monte Paschi ha chiesto troppo tempo al Sanpaolo per impegnarsi in una promessa di fidanzamento. A questo punto Bazoli e Salza, incontratisi al funerale di Desiata (l'ex presidente delle Generali, socie al 5% nel nuovo gruppo), hanno rotto gli indugi ed incaricato le banche d'affari di studiare l'integrazione. In poche settimane, e in piena estate, l'annuncio ufficiale.

La nuova banca nasce come espressione dell'area politica prodiana e come atto finale di emarginazione della area diessina, che ha consumato nel corso del 2005 l'amara esperienza della fallita scalata a Bnl da parte dell'Unipol (da immortalare il ridicolo e patetico "Abbiamo una banca?" di Fassino a Consorte, intercettato dai magistrati). La sconfitta D.S. è evidente nel fallimento della trattativa, condotta da Iozzo, per portare il Monte dei Paschi tra le braccia del Sanpaolo e appena attutita dal ripescaggio di un loro uomo, il d.g. sanpaolino Piero Modiano, come d.g. della nuova banca. Tuttavia i soci insoddisfatti e mugugnanti sono più d'uno. In primo luogo, vi sono le banche estere, cioè il Credit Agricole (che dal 18% passa al 9%) ed il Santander (che dal 10% passa al 5%), scontente di vedersi diluire in una compagine azionaria dove conteranno poco. Infatti si parla per entrambe di una strategia d'uscita e/o di cospicue contropartite, che potrebbero includere quei 600/800 sportelli che la super-banca dovrà cedere per non superare le soglie di concentrazione della concorrenza previste dalla normativa anti-trust. In secondo luogo vi sono le fondazioni locali, che rischiano di vedere il proprio ruolo ridimensionato da un allontanamento dei centri di potere che contano verso livelli molto più distanti dalle beghe cittadine. Non a caso si è in extremis ripescato il modello sanpaolino della "banca dei territori", per confermare almeno a parole l'impegno di mantenere una sensibilità verso i presidi ed i modelli locali. E soprattutto, per tenere calmi gli amministratori pubblici torinesi, si è deciso di fissare a Torino la sede legale (dove si pagano le addizionali locali), mentre le sedi operative saranno divise tra Milano e Torino e l'amministratore delegato sarà Corrado Passera, ex McKinsey, ex-Olivetti, ex-Poste Italiane, ex- Banca Intesa, una fama di tagliatore di teste conquistata sul campo.
E in ultima analisi vengono, tra gli scontenti, quelli che ne hanno le ragioni più serie: i lavoratori. Sul piano sociale la fusione avrà un impatto estremamente pesante. Del resto l'obiettivo reale di ogni accorpamento bancario è sempre stato il taglio dei costi operativi, che nelle banche per il 60% è costo del lavoro. Infatti l'obiettivo dichiarato è di fare salire gli utili netti da 5 a 7 miliardi di euro nel periodo 2005/2009, sfruttando 1,3 miliardi di "sinergie", che per il 40% dipenderanno da tagli sull'organico. Quindi facendo due conti sui 500 milioni di euro da tagliare, saltano almeno 10.000 posti di lavoro…
La partita che si apre è infatti sul come, quando e dove si taglierà. Nel piano industriale, atteso per fine ottobre, si comincerà a delineare la fisionomia del nuovo gruppo e si comincerà a capire la dimensione di doppioni e duplicazioni da abolire. Lo sfoltimento coinvolgerà più massicciamente le sedi direzionali e amministrative centrali, mentre la rete sarà toccata direttamente dalla cessione degli sportelli in eccesso (rispetto all'Antitrust) e in esubero (rispetto alla redditività economica). In questo senso è invalsa negli ultimi anni la pratica di cedere gli sportelli con i lavoratori inclusi, in modo da non disperdere il rapporto fiduciario tra addetti e clienti, con le immaginabili conseguenze in tema di salvaguardia dei diritti sindacalmente acquisiti.
Le due banche che vanno a fondersi hanno attuato in passato pratiche di sfoltimento di organico diametralmente opposte: il Sanpaolo ha "esodato" oltre 3.000 lavoratori, assumendo oltre 1.000 giovani, garantendo volontarietà ed incentivi, mentre Banca Intesa ha mandato a casa 7.000 persone con un pessimo accordo sindacale collettivo, senza volontarietà e senza soldi. Il nuovo capo del personale, il braccio destro di Passera Francesco Micheli, tenterà presumibilmente di imporre a tutto il gruppo il modello di relazioni industriali oggi vigente in Banca Intesa, dove i diritti sindacali sono schiacciati ai livelli minimi. Lo stesso asse sindacale ne esce profondamente trasformato e spostato, se possibile, verso una deriva ancora più moderata. Mentre nel settore si assiste ad una inedita e incredibile alleanza, che vede insieme confederali, autonomi, sindacati di destra e sindacati dei dirigenti (tutti stretti in un rassemblement con ben nove sigle), nella nuova banca assumeranno peso prevalente gli autonomi della Falcri, in competizione con gli autonomi della Fabi, a sua volta in procinto di entrare nella Fiba-Cisl.
È probabile quindi che la superbanca nasca dalla stretta collaborazione tra la componente moderata del centro-sinistra e la componente più moderata del sindacato, cercando di fare pagare ai soliti noti (cioè i lavoratori senza santi in paradiso) i costi economici e sociali della "razionalizzazione" delle strutture, che punta a regalare agli azionisti un aumento dell'utile pari a quasi il 50% in soli  tre anni.
Si apre quindi uno spazio per il sindacato di base, che deve da una parte impedire la diffusione del solito clima di panico che precede ogni fase di ristrutturazione, dall'altra reagire all'impotenza e alla passività che sono la naturale conseguenza di questo clima. Agire per mantenere alto il presidio sindacale su diritti e tutele nella fase del cambiamento è al momento la sfida più urgente. 

Renato Strumia

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