Le mine fabbricate da italiani
vengono fatte brillare da altri italiani e l'arco si chiude a
cinquemila chilometri da dove era partito.
(E. Albinati)
Ennesimo paradosso pacifista: nello scorso luglio, in occasione del
voto parlamentare per la proroga dell'intervento militare italiano in
Afganistan, la quasi totalità delle Ong (Organizzazioni Non
Governative) ha appoggiato le scelte governative favorevoli non solo a
rifinanziare, ma anche aumentare, la presenza delle forze armate
italiane impegnate con propri reparti a Kabul ed Herat, con la
possibilità d'estendere la loro operatività anche nelle
province meridionali, nel contesto strategico della missione Isaf-Nato.
In verità, tale appoggio è stato espresso in forma
problematica, ma rimane pur sempre un fatto politico significativo che
gran parte delle Ong italiane - se si eccettua Emergency - siano scese
in campo per sostenere, legittimandolo, un intervento a tutti gli
effetti belligerante dello Stato italiano, nell'ambito dell'occupazione
militare di un paese che certo non ha dichiarato guerra all'Italia.
Vediamo comunque, seppure sinteticamente, le tappe dell'impegno delle Ong italiane e internazionali in Afganistan.
La maggioranza di esse (Intersos, Acted, Scf, Action contre la faim,
Solidarité, Ami, Gaa, Goal…) giunsero in terra afgana sul
finire del 2001, al seguito dell'operazione "Enduring Freedom"
scatenata dopo l'Undici settembre, in un paese devastato dai
bombardamenti Usa e dai combattimenti tra l'Alleanza del Nord e le
forze talebane, allo scopo di fornire assistenza alle grandi masse di
profughi in movimento.
L'associazione Medecins sans frontières si trovava invece dai
primi anni Ottanta, ai tempi dell'occupazione russa, mentre Emergency
era attiva in territorio afgano sin dal 1999, con un progetto di
assistenza socio-sanitaria, soprattutto per far fronte alle
conseguenze, tragiche, delle mine disseminate a milioni in tutto il
paese durante la guerra anti-sovietica e i diversi conflitti interni.
Nel 2004 però, Medici senza frontiere, dopo l'assassinio di
cinque suoi operatori nel giugno di quell'anno, decideva di mettere
fine alla propria esperienza. In tale occasione, Stefano Savi,
direttore di Msf-Italia, denunciava che ormai i rischi per i volontari
civili erano divenuti altissimi a causa della condotta dei militari.
"Intanto vale ricordare – dichiarava - che in Afganistan è
frequente che uomini delle forze speciali della coalizione, personale
militare o di intelligence, si muovano in abiti civili. Questo è
già un fattore di confusione (…) Poi c'è il lancio
di aiuti dagli aerei. Se i militari danno aiuto così come lo
fanno i civili, la confusione aumenta. Terzo fattore, il più
grave, i militari della coalizione hanno distribuito dei volantini che
vincolano la distribuzione di aiuti alla collaborazione. Così
facendo, chi opera in maniera neutrale viene necessariamente
identificato con gli eserciti e gli operatori diventano obiettivi".
Infatti, in questi ultimi anni, sono state centinaia le vittime e i
rapimenti - come quello dell'italiana Clementina Cantoni, di Care
International, nel 2005 - tra il personale delle Ong di ogni paese,
talvolta scambiati anche per mercenari operanti per conto di compagnie
private di sicurezza, coperte e talvolta persino finanziate per la loro
sedicente attività di cooperazione.
Anche numerose imprese, coinvolte nel lucroso giro d'affari della
ricostruzione, sono solite presentarsi come organismi cooperanti, tanto
che lo stesso governo di Kabul, nei primi mesi di quest'anno, ha
denunciato lo spreco di miliardi di dollari da parte delle Ong
occidentali e ha revocato le autorizzazioni a oltre 1.600
organizzazioni non governative, tra cui 132 straniere, accusandole di
essere implicate in casi di frode e corruzione.
La situazione, per le Ong, si è andata aggravando ulteriormente
con la creazione dei Team provinciali per la ricostruzione (Prt),
attraverso cui l'Isaf-Nato ha iniziato a proiettare la propria azione
nelle diverse province.
Fin dagli anni Novanta, quasi tutti i paese europei avevano già
teorizzato e sperimentato l'integrazione tra componente militare e
umanitaria nelle missioni "di pace", a partire almeno dal Kosovo,
quindi in Afganistan e poi in Iraq. Inizialmente, numerose Ong, pur di
ottenere finanziamenti per realizzare i loro progetti, accettarono tale
logica (basti ricordare lo scandalo italiano della missione Arcobaleno,
nel '99) e le agenzie di cooperazione, governative e non, di diversi
paesi avevano seguito le truppe in Iraq e Afganistan.
Il modello individuato da statunitensi, britannici, olandesi e altri
è quello denominato Cimic (Civil-Military Cooperation) ed ha
trovato proprio nei Prt la sua concreta realizzazione. I Prt tendono
infatti a mescolare civile e militare, sia per funzioni che per
personale, facendo della collaborazione fra forze armate e Ong l'asse
portante. Ad onor del vero, va detto che molte Ong, anche italiane, non
hanno accettato simile commistione, a partire da Save the Children che
ha definito i Prt "una minaccia per l'azione umanitaria"; ma le
cosiddette Briefcase Ong, al contrario, hanno optato per il business,
accettando disinvoltamente la logica del fine che giustifica i mezzi.
Un ulteriore spaccato dell'ambigua realtà del Prt "un po' forza
di combattimento, un po' forza di stabilizzazione, un po' forza di
ricostruzione", è stato fornito dal dirigente di Intersos, Nino
Sergi, a partire dal caso "italiano" di Herat: "non corrisponde
esattamente a quanto viene presentato dai media e dall'informazione
ufficiale (…) La componente civile del Prt in verità non
è riferita alla sua composizione ma a quella parte di
attività che nella Nato va sotto il nome di Cimic", ossia quella
struttura che viene ufficialmente definita come "il coordinamento e la
cooperazione, a sostegno della missione, tra il Comando Nato ai vari
livelli e gli attori civili, inclusi la popolazione e le
autorità locali, le organizzazioni e agenzie internazionali e
nazionali, le organizzazioni non governative (Ong)". Quindi, come
è stato più volte evidenziato, non è la componente
"civile" aggregata al Prt a provvedere alla ricostruzione o alla
riattivazione di strutture sanitarie, scolastiche o dei sistemi idrici,
ma gli stessi militari con i loro reparti logistici.
Questa situazione, già ad alto rischio e di dubbia
credibilità umanitaria, per le Ong si è andata
aggravando, con l'aumento del ruolo militare "contro-insorgenza" via
via assunto dalle forze Isaf-Nato, anche nelle province dove anche i
reparti Usa non sono stati in grado di assumere il controllo. Si veda,
ad esempio, il caso della provincia meridionale di Helmand, dove tutte
le Ong straniere -eccetto Emergency- nel luglio scorso hanno deciso di
abbandonare la zona.
Emblematica del "clima", la testimonianza del geologo Michele Ungano,
volontario impegnato in un progetto per impianti idrici: "Le
disposizioni sono dettate da un responsabile della sicurezza di
Intersos e concordate con l'ambasciata e l'agenzia Ans, una ong che si
occupa proprio di monitorare i potenziali pericoli"
Per questo, sono apparse del tutto fondate le prese di posizione di
Emergency, contrarie all'occupazione militare, anche italiana, in
Afganistan, che però hanno suscitato i malumori polemici del
ministro della Difesa Parisi e del responsabile della Croce Rossa,
Renato Cairo che aveva, senza ombra di pudore, affermato "La guerra
è finita, gli ospedali di Emergency sono inutili".
Evidentemente, deve aver dato molta noia - a sinistra non meno che a
destra - la dichiarazione di Gino Strada, variamente bollato come
antimilitarista e pacifista a senso unico: "Non abbiamo mai avuto
bisogno di militari per proteggerci, anzi i soldati di ogni sorta sono
il reale pericolo. Facciamo da anni il nostro lavoro, che è
quello di curare persone ferite o ammalate, senza bisogno dei militari
(…) C'è chi appoggia un'operazione di guerra camuffandola
e spacciandola per una missione di pace, ma è una vergognosa
menzogna voler far credere che le truppe italiane, che hanno
partecipato a tutte le operazioni lanciate in Afganistan, siano qui a
fare la guardia ai medici".
Tale voce fuori dal coro, non a caso, smascherava infatti di colpo
tutta la retorica pseudo-pacifista del governo di centrosinistra,
inserendosi nelle contraddizioni del pacifismo filoistituzionale; ma
l'unico appoggio è venuto da Giulio Marcon, fondatore dell'Ics
(Consorzio italiano di solidarietà); mentre a soccorrere il
governo di centrosinistra, in ballo per il voto sul rifinanziamento
delle missioni militari all'estero, sono velocemente giunti un
comunicato dell'Associazione Ong Italiane (Alisei, Aispo, Cesvi, Coopi,
Cosv, Gvc, Intersos) intitolato "Il senato decida per il bene del
popolo afgano", e una lettera aperta di Intersos, indirizzata ai nove
senatori "dissenzienti" della maggioranza di centrosinistra, in cui pur
dicendo di condividere "il rifiuto della guerra" venivano sposate le
ragioni dell'interventismo armato tricolore.
Paradosso nel paradosso: alcune di queste Ong avevano espresso, anche
recentemente, critiche e perplessità analoghe a quelle di
Emergency; ma di fronte al rischio di mettere a repentaglio protezioni
politiche e finanziamenti governativi, non sono riuscite a sottrarsi
all'arruolamento.
U.F.