Umanità Nova, n 31 dell'8 ottobre 2006, anno 86

L'eutanasia e il cinismo della chiesa
Paura della libertà

La dichiarazione di Welby contro il potere di vita e di morte
Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa "giocare" con la vita e il dolore altrui.
Piergiorgio Welby

Il co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, ha scritto una lettera al presidente della repubblica italiana, in cui dichiara di non voler più essere tenuto in vita artificialmente.
Egli non vuole continuare a vivere.
Quelli che più si sono sentiti chiamati in causa dal suo intervento non sono stati i malati terminali, o quelli tenuti in vita artificialmente, ma i "professionisti della vita", i cattolici, coloro che, contrariamente a quanto attesta tutta la loro storia, ritengono di avere le chiavi della morale in tasca.
Molti di loro hanno reagito con fastidio alla lettera di Piergiorgio Welby. Perché? Sicuramente alcuni sono impegnati in strutture che ospitano persone con gravi problemi (molte di queste strutture sono direttamente gestite da centri cattolici o da associazioni legate alla chiesa); questi, che siano medici, infermieri, riabilitatori o volontari, sanno che la condizione di dolore sopportata dai propri pazienti è drammatica e richiede un forte e quotidiano appoggio morale. Questi operatori, probabilmente, sentono che la lettera di Piergiorgio potrebbe essere percepita come un atto di resa, la cui portata esistenziale rischierebbe di spingere altri malati a smettere di lottare.
Eppure Piergiorgio ha spiegato che, fino al momento in cui gli è stata possibile una seppur minima forma di espressione attiva (dice: "almeno per qualche ora del giorno potevo, con l'ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet") egli ha sempre fatto la propria parte. Solo dal momento in cui ogni attività è diventata impossibile, a causa dell'evolversi della distrofia muscolare che lo ha ormai costretto all'assoluta immobilità, allora la "vita" non è stata più sua. È diventata la vita che le macchine gli impongono. Riporto le sue parole: "La giornata inizia con l'allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare".
Dov'è il senso di questo esistere? Dal mio punto di vista, il senso principale che ha un'esperienza così drammatica, è solo quello che sa dargli chi la sta sperimentando. L'unica persona che possa decidere se questo tipo di vita sia un "dono", come amano ripetere i credenti, è Piergiorgio Welby.
Eppure le pagine on-line di Avvenire "rispondono" con esperienze di malati gravissimi per i quali vivere, in qualsiasi modo, è comunque valido. È un dono, appunto. Sono disposto a crederlo, perché penso che questo tipo di lettura sia assolutamente personale e rispettabile. Ma ciò non toglie che per Piergiorgio le cose non stiano così e che nessuno possa imporgli di cambiare idea.
Francesco D'Agostino, presidente uscente del Comitato nazionale di bioetica, ritiene che "la richiesta di Welby è stata offerta all'opinione pubblica con un battage eccessivo e poco rispettoso delle sue condizioni. Anche la risposta di Napolitano è stata strumentalizzata". Per l'ex presidente "non si fa bioetica con la propaganda e i lanci mediatici... In Italia ci sono precedenti pericolosi... All'epoca della campagna sull'aborto fu determinante la riproposizione propagandistica dei casi tragici di aborti terapeutici di feti malformati... Così passò una legge che, oggi lo sappiamo, ha consentito di abortire una stragrande maggioranza di individui sani".
Il discorso è chiaro: Welby non è un individuo sofferente che consapevolmente chiede di poter morire, è solo oggetto di strumentalizzazione da parte di chi farà passare una legge sull'eutanasia, così come è passata la legge sull'aborto. I comitati di bioetica sono gestiti da reazionari papisti, sono solo loro che, contro le volontà dei singoli, hanno il diritto di decidere della vita degli esseri umani.
Welby, però, non è un potente, né è strumentalizzato da nessuno. Ha chiesto di poter morire e per farlo è passato sopra la volontà di dominio di coloro che ci comandano. I quali possono sì organizzare guerre, reggere sistemi di produzione basati sullo sfruttamento, gestire tantissime strutture educative, mediche e di assistenza sociale, ma non possono certo permettere che scappi loro una coscienza forte e attiva, la cui evasione potrebbe essere da stimolo per la fuga di tante altre coscienze dalle galere morali che la società ha eretto per contenere la libera espressione di tutti noi.
Il culmine della propaganda ideologica è però raggiunto in un articolo di Daniela Schener. La giornalista divide i malati in buoni e cattivi. Welby, naturalmente, fa parte dei cattivi. Titolo del pezzo è: "I Welby che passano inosservati". Come se Piergiorgio, steso su un letto ed impossibilitato a muoversi, fosse una star della televisione, che so, un vescovo, un papa, un politico di CL.
Scrive la giornalista: "C'è chi, come Piergiorgio Welby, chiede di poter morire attraverso una missiva intrisa di disperazione e ottiene subito la risposta del presidente della repubblica e l'attenzione dei media. E c'è invece chi, dopo lettere a identico destinatario, rimaste perennemente inevase, è costretto a restare ore e ore in una piazza della capitale per chiedere di continuare a vivere e, soprattutto, di poterlo fare con dignità". Nel suo delirio religioso la giornalista ritiene che Welby, costretto all'immobilità da una malattia incurabile, sia un fortunato. Sembra di essere in un film di Verdone, quello in cui un presentatore carrierista e senza scrupoli accusa una paraplegica di parlare da un pulpito privilegiato.
Il cinismo dei mistici ha origini lontane e non può sorprenderci.
L'Avvenire parla di strumentalizzazione del caso Welby proprio mentre usa e strumentalizza (lui sì) l'esperienza che altri malati stanno facendo. Si finge di non vedere che il problema non sta certo nel convincere malati, forti della propria voglia di vivere, a darsi l'eutanasia. Semmai si vuole far sì che sia rispettata la possibilità di accedere all'eutanasia da parte di chi non vuole più vivere. Per i cattolici il problema della libera scelta, della coscienza individuale, sembra essere irrisolvibile. Se il loro dio degli eserciti, foriero di menzogne e superstizione, ritiene che non si possa sciogliere un matrimonio, per ciò stesso il cattolico pensa che tutta la società debba rinunciare al divorzio. Lo stesso principio vale per l'eutanasia. Il dio dei cattolici, che naturalmente è il migliore, quello fondato sul logos, come sostiene Ratzinger, non ama la differenza e la libertà di pensiero. Per questo motivo i suoi seguaci hanno sempre perseguitato e oppresso chi vivesse una fede diversa o esperienze di vita non compatibili con il dettato biblico.
In linea con tutta questa tradizione di radicale intolleranza e fondamentalismo, Avvenire brandisce le parole e le esperienze di alcuni malati per usarle contro altri malati.
Proprio perché per la chiesa è importante che, nel dibattito sull'eutanasia, non si affermi il primato della coscienza individuale nei confronti della narrazione dominante. Per i cattolici fondamentale è, innanzitutto, che gli esseri umani non possano decidere della propria vita, del valore che più di tutti appartiene all'individuo, al singolo.
Le istituzioni del dominio temono innanzitutto questo: che gli individui si emancipino dal paternalistico controllo del clero e della morale dominante, che riaffermino il diritto assoluto a decidere da soli, senza il controllo affettuoso, e la manipolazione psicologica che ne consegue, di papi e principi, di preti, politici e padroni.
Il diritto alla gestione della propria vita non è che l'anticamera per il rifiuto del controllo morale, per realizzare il quale le istituzioni di potere hanno costruito una rete d'acciaio, nelle maglie della quale tutti siamo intrappolati.
Molte sono state le esperienze e le vite che, nel corso della storia, hanno proclamato l'importanza del libero pensiero e dell'affermazione individuale. La libertà di opinione e di giudizio è stata, però, il nemico contro cui il dominio si è scagliato. La volontà di dominio teme il libero pensiero, perché, una volta raggiunta l'adultità, l'umanità sarebbe per ciò stesso emancipata dalla subordinazione alle menzogne delle autorità.
Dal battesimo al funerale, dalla scuola al tempo libero, ogni nostro istante deve essere, quindi, controllato, ogni nostro pensiero deve essere vagliato, conosciuto, giudicato, depurato. Niente deve venire alla superficie, che non sia un meccanico ripetere il monologo del potere, le verità del quale hanno l'unica ragione di fare in modo da creare consenso, assicurando così la continuazione del sistema di controllo e sfruttamento.
Pur opponendoci al controllo che le istituzioni clerico-laiciste esercitano, non possiamo però neanche permettere che il dibattito, strappato alle grinfie del clero e della sua manovalanza laica, diventi appannaggio di esperti, che venga relegato ad una casta di sapienti che si occupi del problema dal punto di vista delle possibilità tecnologiche. Fondamentale è che si aprano mille spazi di confronto, che si torni a parlare tra persone libere, che si abbia la possibilità di fare esprimere tutti. La questione dell'eutanasia è solo uno dei tanti problemi che riguardano noi tutti e, al di là delle tematiche affrontate anch'essa risente, purtroppo, del problema della prassi.
Welby, però, non è una tematica ed ha espresso una forte esigenza e quello che egli ha detto va considerato esclusivamente da questo punto di vista, l'unico che i commenti velenosi dei reazionari non hanno saputo o voluto prendere in considerazione. 

Paolo Iervese

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