La dichiarazione di Welby contro il potere di vita e di morte
Io credo che si possa, per ragioni di
fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse
ragioni si possa "giocare" con la vita e il dolore altrui.
Piergiorgio Welby
Il co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, ha
scritto una lettera al presidente della repubblica italiana, in cui
dichiara di non voler più essere tenuto in vita artificialmente.
Egli non vuole continuare a vivere.
Quelli che più si sono sentiti chiamati in causa dal suo
intervento non sono stati i malati terminali, o quelli tenuti in vita
artificialmente, ma i "professionisti della vita", i cattolici, coloro
che, contrariamente a quanto attesta tutta la loro storia, ritengono di
avere le chiavi della morale in tasca.
Molti di loro hanno reagito con fastidio alla lettera di Piergiorgio
Welby. Perché? Sicuramente alcuni sono impegnati in strutture
che ospitano persone con gravi problemi (molte di queste strutture sono
direttamente gestite da centri cattolici o da associazioni legate alla
chiesa); questi, che siano medici, infermieri, riabilitatori o
volontari, sanno che la condizione di dolore sopportata dai propri
pazienti è drammatica e richiede un forte e quotidiano appoggio
morale. Questi operatori, probabilmente, sentono che la lettera di
Piergiorgio potrebbe essere percepita come un atto di resa, la cui
portata esistenziale rischierebbe di spingere altri malati a smettere
di lottare.
Eppure Piergiorgio ha spiegato che, fino al momento in cui gli è
stata possibile una seppur minima forma di espressione attiva (dice:
"almeno per qualche ora del giorno potevo, con l'ausilio del mio
computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici
su internet") egli ha sempre fatto la propria parte. Solo dal momento
in cui ogni attività è diventata impossibile, a causa
dell'evolversi della distrofia muscolare che lo ha ormai costretto
all'assoluta immobilità, allora la "vita" non è stata
più sua. È diventata la vita che le macchine gli
impongono. Riporto le sue parole: "La giornata inizia con l'allarme del
ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e
il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra
frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei
parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di
pulmocare".
Dov'è il senso di questo esistere? Dal mio punto di vista, il
senso principale che ha un'esperienza così drammatica, è
solo quello che sa dargli chi la sta sperimentando. L'unica persona che
possa decidere se questo tipo di vita sia un "dono", come amano
ripetere i credenti, è Piergiorgio Welby.
Eppure le pagine on-line di Avvenire "rispondono" con esperienze di
malati gravissimi per i quali vivere, in qualsiasi modo, è
comunque valido. È un dono, appunto. Sono disposto a crederlo,
perché penso che questo tipo di lettura sia assolutamente
personale e rispettabile. Ma ciò non toglie che per Piergiorgio
le cose non stiano così e che nessuno possa imporgli di cambiare
idea.
Francesco D'Agostino, presidente uscente del Comitato nazionale di
bioetica, ritiene che "la richiesta di Welby è stata offerta
all'opinione pubblica con un battage eccessivo e poco rispettoso delle
sue condizioni. Anche la risposta di Napolitano è stata
strumentalizzata". Per l'ex presidente "non si fa bioetica con la
propaganda e i lanci mediatici... In Italia ci sono precedenti
pericolosi... All'epoca della campagna sull'aborto fu determinante la
riproposizione propagandistica dei casi tragici di aborti terapeutici
di feti malformati... Così passò una legge che, oggi lo
sappiamo, ha consentito di abortire una stragrande maggioranza di
individui sani".
Il discorso è chiaro: Welby non è un individuo sofferente
che consapevolmente chiede di poter morire, è solo oggetto di
strumentalizzazione da parte di chi farà passare una legge
sull'eutanasia, così come è passata la legge sull'aborto.
I comitati di bioetica sono gestiti da reazionari papisti, sono solo
loro che, contro le volontà dei singoli, hanno il diritto di
decidere della vita degli esseri umani.
Welby, però, non è un potente, né è
strumentalizzato da nessuno. Ha chiesto di poter morire e per farlo
è passato sopra la volontà di dominio di coloro che ci
comandano. I quali possono sì organizzare guerre, reggere
sistemi di produzione basati sullo sfruttamento, gestire tantissime
strutture educative, mediche e di assistenza sociale, ma non possono
certo permettere che scappi loro una coscienza forte e attiva, la cui
evasione potrebbe essere da stimolo per la fuga di tante altre
coscienze dalle galere morali che la società ha eretto per
contenere la libera espressione di tutti noi.
Il culmine della propaganda ideologica è però raggiunto
in un articolo di Daniela Schener. La giornalista divide i malati in
buoni e cattivi. Welby, naturalmente, fa parte dei cattivi. Titolo del
pezzo è: "I Welby che passano inosservati". Come se Piergiorgio,
steso su un letto ed impossibilitato a muoversi, fosse una star della
televisione, che so, un vescovo, un papa, un politico di CL.
Scrive la giornalista: "C'è chi, come Piergiorgio Welby, chiede
di poter morire attraverso una missiva intrisa di disperazione e
ottiene subito la risposta del presidente della repubblica e
l'attenzione dei media. E c'è invece chi, dopo lettere a
identico destinatario, rimaste perennemente inevase, è costretto
a restare ore e ore in una piazza della capitale per chiedere di
continuare a vivere e, soprattutto, di poterlo fare con
dignità". Nel suo delirio religioso la giornalista ritiene che
Welby, costretto all'immobilità da una malattia incurabile, sia
un fortunato. Sembra di essere in un film di Verdone, quello in cui un
presentatore carrierista e senza scrupoli accusa una paraplegica di
parlare da un pulpito privilegiato.
Il cinismo dei mistici ha origini lontane e non può sorprenderci.
L'Avvenire parla di strumentalizzazione del caso Welby proprio mentre
usa e strumentalizza (lui sì) l'esperienza che altri malati
stanno facendo. Si finge di non vedere che il problema non sta certo
nel convincere malati, forti della propria voglia di vivere, a darsi
l'eutanasia. Semmai si vuole far sì che sia rispettata la
possibilità di accedere all'eutanasia da parte di chi non vuole
più vivere. Per i cattolici il problema della libera scelta,
della coscienza individuale, sembra essere irrisolvibile. Se il loro
dio degli eserciti, foriero di menzogne e superstizione, ritiene che
non si possa sciogliere un matrimonio, per ciò stesso il
cattolico pensa che tutta la società debba rinunciare al
divorzio. Lo stesso principio vale per l'eutanasia. Il dio dei
cattolici, che naturalmente è il migliore, quello fondato sul
logos, come sostiene Ratzinger, non ama la differenza e la
libertà di pensiero. Per questo motivo i suoi seguaci hanno
sempre perseguitato e oppresso chi vivesse una fede diversa o
esperienze di vita non compatibili con il dettato biblico.
In linea con tutta questa tradizione di radicale intolleranza e
fondamentalismo, Avvenire brandisce le parole e le esperienze di alcuni
malati per usarle contro altri malati.
Proprio perché per la chiesa è importante che, nel
dibattito sull'eutanasia, non si affermi il primato della coscienza
individuale nei confronti della narrazione dominante. Per i cattolici
fondamentale è, innanzitutto, che gli esseri umani non possano
decidere della propria vita, del valore che più di tutti
appartiene all'individuo, al singolo.
Le istituzioni del dominio temono innanzitutto questo: che gli
individui si emancipino dal paternalistico controllo del clero e della
morale dominante, che riaffermino il diritto assoluto a decidere da
soli, senza il controllo affettuoso, e la manipolazione psicologica che
ne consegue, di papi e principi, di preti, politici e padroni.
Il diritto alla gestione della propria vita non è che
l'anticamera per il rifiuto del controllo morale, per realizzare il
quale le istituzioni di potere hanno costruito una rete d'acciaio,
nelle maglie della quale tutti siamo intrappolati.
Molte sono state le esperienze e le vite che, nel corso della storia,
hanno proclamato l'importanza del libero pensiero e dell'affermazione
individuale. La libertà di opinione e di giudizio è
stata, però, il nemico contro cui il dominio si è
scagliato. La volontà di dominio teme il libero pensiero,
perché, una volta raggiunta l'adultità, l'umanità
sarebbe per ciò stesso emancipata dalla subordinazione alle
menzogne delle autorità.
Dal battesimo al funerale, dalla scuola al tempo libero, ogni nostro
istante deve essere, quindi, controllato, ogni nostro pensiero deve
essere vagliato, conosciuto, giudicato, depurato. Niente deve venire
alla superficie, che non sia un meccanico ripetere il monologo del
potere, le verità del quale hanno l'unica ragione di fare in
modo da creare consenso, assicurando così la continuazione del
sistema di controllo e sfruttamento.
Pur opponendoci al controllo che le istituzioni clerico-laiciste
esercitano, non possiamo però neanche permettere che il
dibattito, strappato alle grinfie del clero e della sua manovalanza
laica, diventi appannaggio di esperti, che venga relegato ad una casta
di sapienti che si occupi del problema dal punto di vista delle
possibilità tecnologiche. Fondamentale è che si aprano
mille spazi di confronto, che si torni a parlare tra persone libere,
che si abbia la possibilità di fare esprimere tutti. La
questione dell'eutanasia è solo uno dei tanti problemi che
riguardano noi tutti e, al di là delle tematiche affrontate
anch'essa risente, purtroppo, del problema della prassi.
Welby, però, non è una tematica ed ha espresso una forte
esigenza e quello che egli ha detto va considerato esclusivamente da
questo punto di vista, l'unico che i commenti velenosi dei reazionari
non hanno saputo o voluto prendere in considerazione.
Paolo Iervese