La guerra è tornata ad essere una componente della nostra
società, sull'onda di un militarismo travestito e di una
continua, accurata, opera di disinformazione e mistificazione. Come
abbiamo più volte segnalato, la torsione contenuta nel passaggio
linguistico da "guerra" a "operazione di polizia internazionale" fatta
nella descrizione della prima guerra del Golfo (1990) segna uno
spartiacque. È poi venuta la "guerra umanitaria" della Nato nei
Balcani. Siamo approdati alla "guerra infinita al terrorismo" che
pervade la quotidianità. Esigenze umanitarie, lotta ad un nemico
invisibile e terrificante "che ci vuole male", la politica estera come
l'ordine pubblico cittadino. Essenziale è esorcizzare la parola
guerra, per poter trascinare appunto la società in una "guerra
permanente", cioè in un permanente stato di eccezione.
Immagini antiche scorrono nei telegiornali, troppo simili a quelle dei
giornali illustrati di inizio '900 o dei cinegiornali del ventennio
fascista. Per il ritorno di un contingente alpino dall'Afganistan,
contingente che ha avuto due caduti, a Cuneo è stata organizzata
la parata delle truppe per le strade della città, cerimonie e
l'inaugurazione di due mostre sugli interventi umanitari a favore della
popolazione e su di un concorso svolto nelle scuole che aveva per tema
appunto gli interventi umanitari delle nostre truppe.
L'informazione è coinvolta a tal punto che anche quelle che
appaiono come notizie in controtendenza, possono ben far parte di una
strategia. Trapela sui giornali che in tre anni di guerra in Iraq ci
sarebbero state centinala di migliaia di morti e pochi giorni dopo il
capo di stato maggiore inglese dichiara che la presenza dei soldati
stranieri in Iraq è un elemento che impedisce la normalizzazione
del paese. Uno scoop di giornalismo pacifista e un generale saggio?
Può darsi. Come può darsi che i due fatti stiano dentro
ad una strategia di uscita da quella drammatica situazione magari della
stessa Inghilterra. Alla nostra opinione pubblica vengono offerte le
stesse immagini ad ogni nuovo soldato morto: l'aereo che torna nella
notte, i parenti affranti circondati da militari di ogni arma, un'alta
carica dello stato (presidente della repubblica, ministro della difesa)
che ripete il gesto di Ciampi di appoggiare le mani sulla bara, come fu
fatto la prima volta per Calipari, morto mentre riportava a casa
Giuliana Sgrena: appunto un intervento non bellico.
Di combattimenti, neanche l'ombra. Da anni la censura militare filtra
ogni immagine che viene trasmessa e nulla davvero si conosce di quanto
accada nelle zone di operazioni in Afganistan, dove i combattimenti
sono quotidiani, così come dell'Iraq vediamo gli attentati nei
mercati, ma non i luoghi dove si è combattuto e si combatte. Del
Libano arrivano le immagini dei contendenti, di un paese prostrato, dei
nostri soldati lì a fare i buoni, come sempre.
La guerra è componente della vita economica e politica,
strumento di politica estera ed interna, determinante un fronte esterno
ed un fronte interno. Stato di eccezione permanente in cui si rafforza
il dominio di pochi sulla società, con l'utilizzo di strumenti
coercitivi (leggi eccezionali, criminalizzazione del dissenso) e
persuasivi (la classica mistificazione nazionale degli "italiani brava
gente" in versione "guerra umanitaria").
L'antimilitarismo deve quindi oggi fare i conti con un apparato
informativo non solo impegnato nelle abituali operazioni di rimozione
del lato scomodo per il potere delle notizie, ma altresì
potentemente votato alla trasmissione di un messaggio buonista e
bellicista al tempo stesso che scava nelle coscienze e mistifica in
radice la realtà della guerra.
W. B.