Umanità Nova, n 33 del 22 ottobre 2006, anno 86

Dall'Afganistan all'Iraq: massacri senza fine
Missioni di Pace, Retorica di Guerra



La guerra è tornata ad essere una componente della nostra società, sull'onda di un militarismo travestito e di una continua, accurata, opera di disinformazione e mistificazione. Come abbiamo più volte segnalato, la torsione contenuta nel passaggio linguistico da "guerra" a "operazione di polizia internazionale" fatta nella descrizione della prima guerra del Golfo (1990) segna uno spartiacque. È poi venuta la "guerra umanitaria" della Nato nei Balcani. Siamo approdati alla "guerra infinita al terrorismo" che pervade la quotidianità. Esigenze umanitarie, lotta ad un nemico invisibile e terrificante "che ci vuole male", la politica estera come l'ordine pubblico cittadino. Essenziale è esorcizzare la parola guerra, per poter trascinare appunto la società in una "guerra permanente", cioè in un permanente stato di eccezione.
Immagini antiche scorrono nei telegiornali, troppo simili a quelle dei giornali illustrati di inizio '900 o dei cinegiornali del ventennio fascista. Per il ritorno di un contingente alpino dall'Afganistan, contingente che ha avuto due caduti, a Cuneo è stata organizzata la parata delle truppe per le strade della città, cerimonie e l'inaugurazione di due mostre sugli interventi umanitari a favore della popolazione e su di un concorso svolto nelle scuole che aveva per tema appunto gli interventi umanitari delle nostre truppe.
L'informazione è coinvolta a tal punto che anche quelle che appaiono come notizie in controtendenza, possono ben far parte di una strategia. Trapela sui giornali che in tre anni di guerra in Iraq ci sarebbero state centinala di migliaia di morti e pochi giorni dopo il capo di stato maggiore inglese dichiara che la presenza dei soldati stranieri in Iraq è un elemento che impedisce la normalizzazione del paese. Uno scoop di giornalismo pacifista e un generale saggio? Può darsi. Come può darsi che i due fatti stiano dentro ad una strategia di uscita da quella drammatica situazione magari della stessa Inghilterra. Alla nostra opinione pubblica vengono offerte le stesse immagini ad ogni nuovo soldato morto: l'aereo che torna nella notte, i parenti affranti circondati da militari di ogni arma, un'alta carica dello stato (presidente della repubblica, ministro della difesa) che ripete il gesto di Ciampi di appoggiare le mani sulla bara, come fu fatto la prima volta per Calipari, morto mentre riportava a casa Giuliana Sgrena: appunto un intervento non bellico.
Di combattimenti, neanche l'ombra. Da anni la censura militare filtra ogni immagine che viene trasmessa e nulla davvero si conosce di quanto accada nelle zone di operazioni in Afganistan, dove i combattimenti sono quotidiani, così come dell'Iraq vediamo gli attentati nei mercati, ma non i luoghi dove si è combattuto e si combatte. Del Libano arrivano le immagini dei contendenti, di un paese prostrato, dei nostri soldati lì a fare i buoni, come sempre.
La guerra è componente della vita economica e politica, strumento di politica estera ed interna, determinante un fronte esterno ed un fronte interno. Stato di eccezione permanente in cui si rafforza il dominio di pochi sulla società, con l'utilizzo di strumenti coercitivi (leggi eccezionali, criminalizzazione del dissenso) e persuasivi (la classica mistificazione nazionale degli "italiani brava gente" in versione "guerra umanitaria").
L'antimilitarismo deve quindi oggi fare i conti con un apparato informativo non solo impegnato nelle abituali operazioni di rimozione del lato scomodo per il potere delle notizie, ma altresì potentemente votato alla trasmissione di un messaggio buonista e bellicista al tempo stesso che scava nelle coscienze e mistifica in radice la realtà della guerra.

W. B.

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