Precario deriva dalle parole latine Prex (preghiera) e da Prece
(chiedere, supplicare): ottenuto per preghiera. Ciò che si
esercita con permissione, o tolleranza altrui, che non dura per sempre,
ma per il tempo accordato dal concedente.
La condizione di precarietà afferisce a diversi piani e
situazioni della vita financo quella legata ai sentimenti, alle
relazioni amicali, ovvero a quelle condizioni esistenziali
"fondamentalmente" immateriali.
Quando parliamo di materialità, quindi della possibilità
di praticare una vita non legata alla magnanimità altrui,
condizione che poi inevitabilmente ha ricadute, a volte rovinose, sulle
qualità mentali e quindi relazionali in genere, parliamo
necessariamente di situazione stabile, o meglio di obbligo non servile.
Perché il presupposto vero della mancanza di sicurezza e quindi
della precarietà innanzitutto professionale è quello di
dover mendicare cose (ferie, malattie, permessi, maternità,
pagamenti del salario puntuali…) che ad altri sono garantiti dal
diritto, precipitato legislativo di lotte, scontri sociali e
quant'altro. La condizione lavorativa precaria pone i soggetti in
questione, ovvero i prestatori di forza lavoro, ad essere in una
situazione di totale dipendenza dalla "buona" o "cattiva"
volontà del padrone di turno, del capetto di turno, o dei turni
con o senza capetti e padroni. Mendicanti, appunto precari, sempre a
chiedere quando arriva la paga, se arriva, perché non sono stati
conteggiati gli straordinari, perché si devono fare gli
straordinari quando non se ne ha voglia o motivo, perché i
festivi vengono pagati come gli altri giorni, perché il cottimo,
perché a lui/lei sì e all'altro no e così via.
Defatigante domandare a persone che acquisiscono, sempre più
informalmente, poteri di disciplinamento lavorativo e sociale: e poi
gastriti, mal di testa, incazzature non volute con le persone
sbagliate, nervosismo automobilistico… nemici ovunque. In questo
turbillion bordellesco c'è qualcuno che gode: quelli che servono
sempre, anche quando non gli è chiesto, quelli con i peli sullo
stomaco di lunghezza variabile, quelli che tanto a loro non gli tocca
mai, quelli che fanno carriera, quelli che comandano da quando erano
all'asilo nido, i bastardi in genere e di vario genere.
Al di là delle forme giuridiche con le quali la precarizzazione
dei rapporti di lavoro, e a cascata tutti gli altri, è andata
avanti nel corso degli ultimi decenni (pacchetto Treu, legge Biagi, ma
si potrebbe tornare indietro con l'abolizione della scala mobile)
quello che la sostanzia è una condizione di vita eretta a
sistema sociale, non per tutti, ma per molti, tale da cambiare
antropologicamente la figura del cittadino, figura assai controversa
portatrice di diritti e doveri in età del capitalismo avanzato,
in suddito. È un po' quello che avviene sul piano delle
relazioni internazionali e delle guerre esterne: la riduzione del
nemico in sub-uomo-donna, umanità che, collocandosi su un
gradino più basso rispetto a quella che gli muove guerra, viene
considerata, astrattamente e materialmente, non portatrice di diritti
considerati universali. Di qui le umiliazioni, le torture, la morte.
Ma forse qualcuno non si è accorto che il gradino più
basso è già stato raggiunto e non è lontano dalle
nostre case? Quando, in un paese "avanzato" come l'Italia, esiste la
schiavitù e la pena di morte legata alle disponibilità
della vita di persone (sto parlando di quello che è emerso dai
raccoglitori di pomodori in Puglia), dove ancora si può andare?
La rivolta che richiedono i tempi moderni non può che essere una
rivolta anti-schiavista: perché il diritto, purché non
mero registro di cassa, è sensibile ai rapporti di forza reali
ed ai modi di pensare comunemente diffusi. Oggi come oggi però
è tutto più complicato: perché molti di coloro che
dicono di battersi contro la nuova schiavitù sono anche coloro
che, a titolo diverso, la hanno promossa e la stanno promuovendo: CGIL
e Rifondazione comunista in testa. Degli altri non parlo neppure.
Questi guardiani delle leggi di mercato, un po' democratici ed un po'
radicali predicano mediocremente ed agiscono piuttosto male. Ci
fidiamo? È meglio di No.
E per finire: ma quello che proprio vogliamo è la
schiavitù più nobile, quella del lavoro salariato con
diritti annessi e connessi? Certo tra le due forme non abbiamo dubbi.
Ma quello che non dobbiamo mai dimenticare di dire è che noi,
alla fin fine, vogliamo liberarci dalla costrizione del lavoro, che lo
vogliamo liberare dalla imposizione delle sue cinque, otto dieci ore,
che vogliamo fare cose che ci servono nei tempi che ci diamo e che non
vogliamo produrre per competere con altri, per vendere schifezze
inutili ed inquinanti, che vogliamo ridurre al minimo necessario il
tempo dovuto alla riproduzione sociale (iniziamo con la metà di
quello attuale a pari condizioni) e che vogliamo liberare il resto per
divertirci, cazzeggiare, amare, giocare, mangiare, suonare…
insomma quello che vogliamo si chiama comunismo anarchico.
Pietro Stara