Umanità Nova, n 33 del 22 ottobre 2006, anno 86

Precari
Sul gradino più basso



Precario deriva dalle parole latine Prex (preghiera) e da Prece (chiedere, supplicare): ottenuto per preghiera. Ciò che si esercita con permissione, o tolleranza altrui, che non dura per sempre, ma per il tempo accordato dal concedente.
La condizione di precarietà afferisce a diversi piani e situazioni della vita financo quella legata ai sentimenti, alle relazioni amicali, ovvero a quelle condizioni esistenziali "fondamentalmente" immateriali.
Quando parliamo di materialità, quindi della possibilità di praticare una vita non legata alla magnanimità altrui, condizione che poi inevitabilmente ha ricadute, a volte rovinose, sulle qualità mentali e quindi relazionali in genere, parliamo necessariamente di situazione stabile, o meglio di obbligo non servile. Perché il presupposto vero della mancanza di sicurezza e quindi della precarietà innanzitutto professionale è quello di dover mendicare cose (ferie, malattie, permessi, maternità, pagamenti del salario puntuali…) che ad altri sono garantiti dal diritto, precipitato legislativo di lotte, scontri sociali e quant'altro. La condizione lavorativa precaria pone i soggetti in questione, ovvero i prestatori di forza lavoro, ad essere in una situazione di totale dipendenza dalla "buona" o "cattiva" volontà del padrone di turno, del capetto di turno, o dei turni con o senza capetti e padroni. Mendicanti, appunto precari, sempre a chiedere quando arriva la paga, se arriva, perché non sono stati conteggiati gli straordinari, perché si devono fare gli straordinari quando non se ne ha voglia o motivo, perché i festivi vengono pagati come gli altri giorni, perché il cottimo, perché a lui/lei sì e all'altro no e così via. Defatigante domandare a persone che acquisiscono, sempre più informalmente, poteri di disciplinamento lavorativo e sociale: e poi gastriti, mal di testa, incazzature non volute con le persone sbagliate, nervosismo automobilistico… nemici ovunque. In questo turbillion bordellesco c'è qualcuno che gode: quelli che servono sempre, anche quando non gli è chiesto, quelli con i peli sullo stomaco di lunghezza variabile, quelli che tanto a loro non gli tocca mai, quelli che fanno carriera, quelli che comandano da quando erano all'asilo nido, i bastardi in genere e di vario genere.
Al di là delle forme giuridiche con le quali la precarizzazione dei rapporti di lavoro, e a cascata tutti gli altri, è andata avanti nel corso degli ultimi decenni (pacchetto Treu, legge Biagi, ma si potrebbe tornare indietro con l'abolizione della scala mobile) quello che la sostanzia è una condizione di vita eretta a sistema sociale, non per tutti, ma per molti, tale da cambiare antropologicamente la figura del cittadino, figura assai controversa portatrice di diritti e doveri in età del capitalismo avanzato, in suddito. È un po' quello che avviene sul piano delle relazioni internazionali e delle guerre esterne: la riduzione del nemico in sub-uomo-donna, umanità che, collocandosi su un gradino più basso rispetto a quella che gli muove guerra, viene considerata, astrattamente e materialmente, non portatrice di diritti considerati universali. Di qui le umiliazioni, le torture, la morte.
Ma forse qualcuno non si è accorto che il gradino più basso è già stato raggiunto e non è lontano dalle nostre case? Quando, in un paese "avanzato" come l'Italia, esiste la schiavitù e la pena di morte legata alle disponibilità della vita di persone (sto parlando di quello che è emerso dai raccoglitori di pomodori in Puglia), dove ancora si può andare?
La rivolta che richiedono i tempi moderni non può che essere una rivolta anti-schiavista: perché il diritto, purché non mero registro di cassa, è sensibile ai rapporti di forza reali ed ai modi di pensare comunemente diffusi. Oggi come oggi però è tutto più complicato: perché molti di coloro che dicono di battersi contro la nuova schiavitù sono anche coloro che, a titolo diverso, la hanno promossa e la stanno promuovendo: CGIL e Rifondazione comunista in testa. Degli altri non parlo neppure. Questi guardiani delle leggi di mercato, un po' democratici ed un po' radicali predicano mediocremente ed agiscono piuttosto male. Ci fidiamo? È meglio di No.
E per finire: ma quello che proprio vogliamo è la schiavitù più nobile, quella del lavoro salariato con diritti annessi e connessi? Certo tra le due forme non abbiamo dubbi. Ma quello che non dobbiamo mai dimenticare di dire è che noi, alla fin fine, vogliamo liberarci dalla costrizione del lavoro, che lo vogliamo liberare dalla imposizione delle sue cinque, otto dieci ore, che vogliamo fare cose che ci servono nei tempi che ci diamo e che non vogliamo produrre per competere con altri, per vendere schifezze inutili ed inquinanti, che vogliamo ridurre al minimo necessario il tempo dovuto alla riproduzione sociale (iniziamo con la metà di quello attuale a pari condizioni) e che vogliamo liberare il resto per divertirci, cazzeggiare, amare, giocare, mangiare, suonare… insomma quello che vogliamo si chiama comunismo anarchico.

Pietro Stara

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