Umanità Nova, n 34 del 29 ottobre 2006, anno 86

Più carità che giustizia
Commercio equo. Ok, il prezzo non è (mai) giusto


Nel vocabolario della lingua italiana, alla voce commercio si legge: "Attività economica fondata sullo scambio di merce con altra merce di valore equivalente o con denaro". Se diamo per plausibile che all'origine della storia dell'uomo il valore di un bene fosse legato prioritariamente al suo valore d'uso ed il commercio praticato attraverso il baratto, allora possiamo considerare il commercio come un'attività con un suo carattere potenzialmente positivo, fattore di ampliamento degli orizzonti spaziali, sociali, culturali. Questa sua funzione non è durata però a lungo, diventando nel tempo motivo e strumento per l'accumulo di ricchezza, conquista di potere, prevaricazioni e guerre.
Se poi consideriamo quanto è avvenuto nei cinque secoli che hanno segnato il periodo coloniale ci troviamo di fronte "ad una vera e propria rapina a mano armata", un assalto che non si è fermato nel predare le risorse naturali ma è arrivato ad organizzare ufficialmente il commercio degli esseri umani ridotti in schiavitù.
Le conseguenze dello sfruttamento coloniale si fanno sentire ancora oggi, in un mondo globalizzato ma ancora organizzato in funzione delle ex potenze coloniali, il cosiddetto Nord del Mondo.
La povertà e la miseria delle popolazioni del Sud del Mondo, che non sono perciò casuali, oggi sono perpetuate dalle regole del commercio mondiale che aggravano gli squilibri esistenti. Anziché favorire un'equa distribuzione delle risorse, i privilegiati del pianeta continuano a considerare i paesi del Sud del Mondo, semplicemente, come fornitori di materie prime per il Nord. I cartelli, quasi monopolistici, delle multinazionali stabiliscono i prezzi delle materie prime e, insieme al peso del debito estero e all'elevata ricattabilità dei lavoratori non sindacalizzati, determinano l'impossibilità di qualsiasi miglioramento significativo delle condizioni di vita di intere popolazioni stritolate dallo sfruttamento e relegate nell'emarginazione.
È in questo contesto che deve essere inserita la storia del commercio "equo e solidale" o, utilizzando l'espressione di origine anglosassone, del "fair trade".
Le prime esperienze in quest'ambito ebbero inizio nei Paesi Bassi all'inizio degli anni '60 (pioniere furono le associazioni che si riunirono sotto la dizione di "Max Havelaar"), presto seguite in Germania, Inghilterra, Austria, Belgio, Francia e, oltreoceano, negli Stati Uniti e nel Giappone. In Italia le prime consistenti organizzazioni iniziarono ad agire alla fine degli anni '80, sull'onda di diverse iniziative, fra cui la campagna nazionale "Nord-Sud, un avvenire comune o nessun avvenire" lanciata da alcune organizzazioni no-profit ed ONG.
L'esperienza italiana è caratterizzata dalla presenza di diverse realtà ed orientamenti operativi che sostanzialmente derivano dal confronto di una "doppia anima" del movimento, una più politica ed un'altra più commerciale.
All'inizio del '95 nasceva l'Associazione Transfair, con lo scopo di adottare e promuovere un marchio di commercio equo tra il pubblico dei consumatori, seguendo esperienze preesistenti a livello europeo soprattutto in previsione dell'ingresso dei prodotti equo solidali nella grande distribuzione.

Non vogliamo addentrarci nel confronto tra queste due tendenze ne vogliamo stabilire la lista dei "buoni e cattivi", ma è indubbio che alcune riflessioni sul fenomeno vanno fatte anche in relazione ad un'inchiesta comparsa sulle colonne del Financial Times (dei primi di settembre '06) in seguito ripresa da vari organi d'informazione italiani (tra cui la Stampa del 10/9/2006).
Secondo tali fonti: i lavoratori impiegati dalle associazioni che aderiscono alla fondazione Fairtrade (le accuse sono rivolte a www.fairtrade.org.uk) sarebbero pagati al di sotto del minimo legale. Caffè di origine ignota verrebbe contrabbandato per certificato e venduto come tale, una parte del caffè "equo e solidale" crescerebbe in aree protette, o che almeno dovrebbero esserlo, come le foreste pluviali.
Non disponiamo degli strumenti per verificare la veridicità di tali tesi né abbiamo elementi per sostenere la fondatezza delle dichiarazioni ufficiali di Fairtrade UK. Non siamo però equidistanti, per intenderci... se infrangere i cristalli servisse a cambiare il mondo, di fronte alla vetrina di un Mc Donald e ad una delle Botteghe del Mondo, nessun dubbio su quale andrebbe in frantumi. Ciò non deve, però, impedire una riflessione critica su alcuni aspetti che riguardano il fair trade.

Ma cosa si intende per commercio equo e solidale?
Dalla pagina web dell'AGICES (Assemblea Generale Italiana Commercio Equo Solidale) riportiamo la loro stessa definizione.
Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al commercio convenzionale; esso promuove giustizia sociale ed economica, sviluppo sostenibile, rispetto per le persone e per l'ambiente, attraverso il commercio, la crescita della consapevolezza dei consumatori, l'educazione, l'informazione e l'azione politica.
Il Commercio Equo e Solidale è una relazione paritaria fra tutti i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai consumatori.
In particolare, chi opera nel commercio equo e solidale si impegna ad agire secondo una serie di criteri condivisi tra cui: garantire condizioni di lavoro che rispettino i diritti dei lavoratori, non ricorrere al lavoro infantile, pagare un prezzo equo ai produttori, rispettare l'ambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile in tutte le fasi di produzione e commercializzazione. E ancora: coinvolgere i produttori di base, i volontari e i lavoratori nelle decisioni che li riguardano, garantire rapporti commerciali diretti e continuativi, evitando forme di intermediazione speculativa, garantire trasparenza nella gestione economica (per consultare la Carta italiana dei criteri riferirsi al sito www.agices.it).
Mentre ancora ci chiediamo se è poi così scontato che ci debba essere qualcuno che coltiva monocolture di banane o caffè per soddisfare le richieste del mercato, osserviamo che il commercio equo e solidale in Europa è un fenomeno in crescita, come confermano le vendite complessive di prodotti che hanno raggiunto 660 milioni di euro nel 2005. I prodotti tipici del ComES detengono ora quote di mercato considerevoli in alcuni paesi: il 20% del caffè macinato venduto nel Regno Unito e circa il 2% di tutte le vendite di caffè in Austria, Danimarca, Irlanda, Belgio e Germania recano l'etichetta del commercio equo e solidale. Le banane fair trade detengono quote di mercato che raggiungono il 5,5% in Austria, Belgio, Finlandia e Regno Unito.
L'Italia è tra i Paesi protagonisti del commercio equo in Europa, confermandosi al terzo posto per valore delle importazioni (41,1milioni di euro l'anno).
Come accennato in precedenza, un settore non privo di contraddizioni e di limiti, che in diverse occasioni hanno determinato pericolosi scivoloni che, a tratti, delineano come, da un approccio alternativo al commercio convenzionale, si passi alla piena integrazione nel mercato capitalistico.
Proviamo ad evidenziarne alcuni.
Un nodo fondamentale del problema è quello legato alla decisione di alcune grandi centrali d'importazione di entrare nella grande distribuzione (GDO) portando i prodotti equo solidali sugli scaffali dei supermercati.
Le due prime centrali italiane, CTM Altromercato di Bolzano e Commercio Alternativo di Ferrara, imitando le scelte di analoghi referenti internazionali, sono presenti da alcuni anni con linee di prodotti alimentari nelle catene della grande distribuzione, fra cui Esselunga, Coop e Conad.

Entriamo nel sistema per cambiarlo...
Questa motivazione non tiene; infatti, riteniamo che il voler cambiare il sistema diventandone parte integrante sia solamente una pia illusione. Sicuramente il commercio equo e solidale è uno strumento di stimolo ma, appena potrà, la grande distribuzione andrà direttamente dai produttori scartando l'intermediazione (etica e di immagine, ma scomoda e onerosa) delle centrali d'importazione.
Tra l'altro, per i prodotti alimentari ormai si tratta quasi sempre d'importazione di materia prima: cacao, zucchero, miele... Ed è impressionante constatare come con tre o quattro materie prime la grande distribuzione riesca a proporre un'ampia gamma di prodotti sui propri scaffali riuscendo a fare la maggior parte del fatturato europeo di commercio equo e solidale.
Come non considerare che questa apparente sensibilità della GDO sia solo di facciata dato che i prodotti etici non sostituiscono ma affiancano gli altri prodotti del mercato convenzionale?
La logica della GDO è intercettare e proporre tutto quello che il cliente vuole, anche se contraddittorio (il prodotto del commercio equo e quello della Nestlè sullo stesso scaffale), perché la sua logica è aumentare la possibilità di scelta del consumatore, sottintendendo che ogni scelta è buona, l'importante è che sia vendibile.
A proposito, il massimo della contraddizione si è raggiunto con il lancio nell'ottobre del 2005 di una nuova miscela di caffè con il marchio Fairtrade proprio per opera della Nestlè. Sì, avete capito bene, nella logica della "contaminazione" hanno concesso l'utilizzo del marchio ad una multinazionale come la Nestlè che, al centro di numerose campagne di boicottaggio, ha evidentemente intrapreso un'operazione di marketing finalizzata alla rivalutazione della sua immagine. Incredibile che questa operazione trovi sostegno in una delle organizzazioni del commercio equo solidale.
All'interno della filiera del commercio equo e solidale si verifica, talvolta, un fatto curioso. In fase di acquisto si agisce per rompere il monopolio degli intermediari che, spesso, sfruttano contadini e artigiani; in fase di vendita, invece, ci si rivolge a strutture della grande distribuzione che sono fortemente monopolistiche.

La dipendenza dal fatturato
Dipendere per una forte percentuale del proprio fatturato da grosse catene di distribuzione è molto rischioso. La storia insegna che cambi di strategie commerciali della GDO possono creare problemi a grandi aziende; tanto più possono crearli a centrali di importazione del commercio equo e solidale, che a confronto hanno un piccolo potere di contrattazione.
Una scelta quasi irreversibile, da cui è difficile tornare indietro, a meno di una pesante ristrutturazione interna per le centrali d'importazione e gravi conseguenze pratiche per i produttori improvvisamente orfani di un unico canale di vendita.
Una logica che, pur partendo dall'effettivo bisogno di garantire ai produttori nuove opportunità sposta gradatamente l'obiettivo sulla quota di mercato da raggiungere per conquistare la richiesta "etica" dei consumatori. Alla fine, infatti, la domanda non è: siamo riusciti a soddisfare il bisogno di quei contadini? Ma: abbiamo raggiunto la quota di mercato che ci eravamo proposti?
Questione che porta inevitabilmente a privilegiare l'aspetto commerciale, ossia la vendibilità del prodotto, rispetto all'eticità del progetto, allargando sempre più le maglie e i criteri per appoggiare un'organizzazione di produttori (ok se non è un'associazione o una cooperativa, ok se non ha benefici sociali per chi lavora, ok se non si hanno adeguate notizie sui processi decisionali, ok se nel viaggio missione non mi è stato possibile parlare direttamente con i lavoratori...) fino al rischio di arrivare ad accettare aziende normalissime, semplicemente che non sfruttano il lavoro minorile e che remunerano con la paga base i propri dipendenti o in casi estremi neppure quello, come denunciato dall'inchiesta del Financial Times.

Ma si è andati anche oltre, infatti, dalla fine di aprile del 2003, nelle tavole dei 140 ristoranti Mc Donald's in Svizzera si può leggere un avviso che dice: "La collaborazione con Max Havelaar le permette, per ogni caffè Aroma che degusta, di portare il suo contributo a un commercio più giusto e al futuro dei paesi in via di sviluppo".
Ecco che la sintesi tra concretezza e idealismo promessa dall'opzione equo - solidale s'incrina, in alcuni casi, in tal misura da determinare un effetto più dirompente di qualsiasi vetro infranto.

Marchio e prezzo giusto?
Mentre alcuni ritengono che per far crescere il commercio equo e solidale sia indispensabile un marchio tipo FLO-International (Fair Trade Labelling Organizations International), altri ritengono di doversi opporre a un marchio che consente a Mc Donald's e Procter & Gamble di vendere, ad esempio, caffè del commercio equo.
Si rende necessario, a questo punto, analizzare il concetto di prezzo equo e chiedersi che cosa sia realmente. FLO lo identifica prevedendo un sovrapprezzo alla quotazione mondiale del prodotto in questione.
Il prezzo così determinato può essere definito un prezzo in grado di garantire una vita dignitosa al produttore?
In realtà, ciò che viene definito prezzo equo è solo una semplice operazione di sovrapprezzo standard applicato a una quotazione mondiale. Se il prezzo mondiale non rispecchia la degna remunerazione, l'aggiunta di un sovrapprezzo, analogamente, non garantisce adeguate condizioni di vita. Il prezzo così costruito è, semplicemente, ciò che sono disposti a pagare in più i consumatori.
Non si dovrebbe, ricorrendo al "mito" del prezzo giusto, ridurre la relazione a un tot in più che, di per sé, è più vicino alla carità che alla giustizia.
Inoltre un'entità di certificazione come ad esempio il FLO dovrebbe essere imparziale e non essere portatrice di alcun tipo di interesse. Sebbene sia scontato che il marchio non "venda" direttamente, la sua preoccupazione costante è come aumentare le vendite, comportandosi con criteri di marca commerciale e non di certificazione.
Presentandosi come un ente che certifica gli "standard internazionali del Commercio Equo e Solidale", danneggia gravemente i produttori del Sud che non può certificare. In tal senso, viene falsata la realtà agli occhi dei consumatori del Nord, che sono indotti a pensare che chi non viene certificato non rispetti alcuni punti fondamentali del Fair Trade: mentre il motivo primo è che una realtà come FLO non è in grado di garantire la vendita dei prodotti che se troppo cari, o faremmo meglio a dire troppo equi, non troverebbero spazio nei grandi canali di distribuzione.
Rimanendo, ancora per un attimo, nell'ottica commerciale la domanda da porre non dovrebbe solo essere perché i prodotti fair trade sono più cari, ma per quali ragioni gli altri prodotti costano meno?

Il pericolo che l'ipotesi sostenuta dal ComES, che pur sostenendo una pratica riformista conserva una propria dignità ed un proprio ruolo in un mondo che non si pone neppure il problema della giustizia sociale, venga completamente riassorbita nelle spire del sistema è più che reale. Come già verificato in altre occasioni, il progressivo svuotamento della sua criticità rispetto allo status quo ricondurrebbe le aspirazioni al cambiamento all'interno di un meccanismo perfettamente funzionale agli attuali rapporti di potere del mercato globale, riducendolo ad una nicchia riservata a chi vuole dar pace alla propria coscienza.
Non esiste "prezzo giusto" in un'economia che si fonda sullo sfruttamento.

MarTa

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