Nel vocabolario della lingua italiana, alla voce commercio si legge:
"Attività economica fondata sullo scambio di merce con altra
merce di valore equivalente o con denaro". Se diamo per plausibile che
all'origine della storia dell'uomo il valore di un bene fosse legato
prioritariamente al suo valore d'uso ed il commercio praticato
attraverso il baratto, allora possiamo considerare il commercio come
un'attività con un suo carattere potenzialmente positivo,
fattore di ampliamento degli orizzonti spaziali, sociali, culturali.
Questa sua funzione non è durata però a lungo, diventando
nel tempo motivo e strumento per l'accumulo di ricchezza, conquista di
potere, prevaricazioni e guerre.
Se poi consideriamo quanto è avvenuto nei cinque secoli che
hanno segnato il periodo coloniale ci troviamo di fronte "ad una vera e
propria rapina a mano armata", un assalto che non si è fermato
nel predare le risorse naturali ma è arrivato ad organizzare
ufficialmente il commercio degli esseri umani ridotti in
schiavitù.
Le conseguenze dello sfruttamento coloniale si fanno sentire ancora
oggi, in un mondo globalizzato ma ancora organizzato in funzione delle
ex potenze coloniali, il cosiddetto Nord del Mondo.
La povertà e la miseria delle popolazioni del Sud del Mondo, che
non sono perciò casuali, oggi sono perpetuate dalle regole del
commercio mondiale che aggravano gli squilibri esistenti.
Anziché favorire un'equa distribuzione delle risorse, i
privilegiati del pianeta continuano a considerare i paesi del Sud del
Mondo, semplicemente, come fornitori di materie prime per il Nord. I
cartelli, quasi monopolistici, delle multinazionali stabiliscono i
prezzi delle materie prime e, insieme al peso del debito estero e
all'elevata ricattabilità dei lavoratori non sindacalizzati,
determinano l'impossibilità di qualsiasi miglioramento
significativo delle condizioni di vita di intere popolazioni stritolate
dallo sfruttamento e relegate nell'emarginazione.
È in questo contesto che deve essere inserita la storia del
commercio "equo e solidale" o, utilizzando l'espressione di origine
anglosassone, del "fair trade".
Le prime esperienze in quest'ambito ebbero inizio nei Paesi Bassi
all'inizio degli anni '60 (pioniere furono le associazioni che si
riunirono sotto la dizione di "Max Havelaar"), presto seguite in
Germania, Inghilterra, Austria, Belgio, Francia e, oltreoceano, negli
Stati Uniti e nel Giappone. In Italia le prime consistenti
organizzazioni iniziarono ad agire alla fine degli anni '80, sull'onda
di diverse iniziative, fra cui la campagna nazionale "Nord-Sud, un
avvenire comune o nessun avvenire" lanciata da alcune organizzazioni
no-profit ed ONG.
L'esperienza italiana è caratterizzata dalla presenza di diverse
realtà ed orientamenti operativi che sostanzialmente derivano
dal confronto di una "doppia anima" del movimento, una più
politica ed un'altra più commerciale.
All'inizio del '95 nasceva l'Associazione Transfair, con lo scopo di
adottare e promuovere un marchio di commercio equo tra il pubblico dei
consumatori, seguendo esperienze preesistenti a livello europeo
soprattutto in previsione dell'ingresso dei prodotti equo solidali
nella grande distribuzione.
Non vogliamo addentrarci nel confronto tra queste due tendenze ne
vogliamo stabilire la lista dei "buoni e cattivi", ma è indubbio
che alcune riflessioni sul fenomeno vanno fatte anche in relazione ad
un'inchiesta comparsa sulle colonne del Financial Times (dei primi di
settembre '06) in seguito ripresa da vari organi d'informazione
italiani (tra cui la Stampa del 10/9/2006).
Secondo tali fonti: i lavoratori impiegati dalle associazioni che
aderiscono alla fondazione Fairtrade (le accuse sono rivolte a
www.fairtrade.org.uk) sarebbero pagati al di sotto del minimo legale.
Caffè di origine ignota verrebbe contrabbandato per certificato
e venduto come tale, una parte del caffè "equo e solidale"
crescerebbe in aree protette, o che almeno dovrebbero esserlo, come le
foreste pluviali.
Non disponiamo degli strumenti per verificare la veridicità di
tali tesi né abbiamo elementi per sostenere la fondatezza delle
dichiarazioni ufficiali di Fairtrade UK. Non siamo però
equidistanti, per intenderci... se infrangere i cristalli servisse a
cambiare il mondo, di fronte alla vetrina di un Mc Donald e ad una
delle Botteghe del Mondo, nessun dubbio su quale andrebbe in frantumi.
Ciò non deve, però, impedire una riflessione critica su
alcuni aspetti che riguardano il fair trade.
Ma cosa si intende per commercio equo e solidale?
Dalla pagina web dell'AGICES (Assemblea Generale Italiana Commercio Equo Solidale) riportiamo la loro stessa definizione.
Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al
commercio convenzionale; esso promuove giustizia sociale ed economica,
sviluppo sostenibile, rispetto per le persone e per l'ambiente,
attraverso il commercio, la crescita della consapevolezza dei
consumatori, l'educazione, l'informazione e l'azione politica.
Il Commercio Equo e Solidale è una relazione paritaria fra tutti
i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai
produttori ai consumatori.
In particolare, chi opera nel commercio equo e solidale si impegna ad
agire secondo una serie di criteri condivisi tra cui: garantire
condizioni di lavoro che rispettino i diritti dei lavoratori, non
ricorrere al lavoro infantile, pagare un prezzo equo ai produttori,
rispettare l'ambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile in tutte le
fasi di produzione e commercializzazione. E ancora: coinvolgere i
produttori di base, i volontari e i lavoratori nelle decisioni che li
riguardano, garantire rapporti commerciali diretti e continuativi,
evitando forme di intermediazione speculativa, garantire trasparenza
nella gestione economica (per consultare la Carta italiana dei criteri
riferirsi al sito www.agices.it).
Mentre ancora ci chiediamo se è poi così scontato che ci
debba essere qualcuno che coltiva monocolture di banane o caffè
per soddisfare le richieste del mercato, osserviamo che il commercio
equo e solidale in Europa è un fenomeno in crescita, come
confermano le vendite complessive di prodotti che hanno raggiunto 660
milioni di euro nel 2005. I prodotti tipici del ComES detengono ora
quote di mercato considerevoli in alcuni paesi: il 20% del caffè
macinato venduto nel Regno Unito e circa il 2% di tutte le vendite di
caffè in Austria, Danimarca, Irlanda, Belgio e Germania recano
l'etichetta del commercio equo e solidale. Le banane fair trade
detengono quote di mercato che raggiungono il 5,5% in Austria, Belgio,
Finlandia e Regno Unito.
L'Italia è tra i Paesi protagonisti del commercio equo in
Europa, confermandosi al terzo posto per valore delle importazioni
(41,1milioni di euro l'anno).
Come accennato in precedenza, un settore non privo di contraddizioni e
di limiti, che in diverse occasioni hanno determinato pericolosi
scivoloni che, a tratti, delineano come, da un approccio alternativo al
commercio convenzionale, si passi alla piena integrazione nel mercato
capitalistico.
Proviamo ad evidenziarne alcuni.
Un nodo fondamentale del problema è quello legato alla decisione
di alcune grandi centrali d'importazione di entrare nella grande
distribuzione (GDO) portando i prodotti equo solidali sugli scaffali
dei supermercati.
Le due prime centrali italiane, CTM Altromercato di Bolzano e Commercio
Alternativo di Ferrara, imitando le scelte di analoghi referenti
internazionali, sono presenti da alcuni anni con linee di prodotti
alimentari nelle catene della grande distribuzione, fra cui Esselunga,
Coop e Conad.
Entriamo nel sistema per cambiarlo...
Questa motivazione non tiene; infatti, riteniamo che il voler cambiare
il sistema diventandone parte integrante sia solamente una pia
illusione. Sicuramente il commercio equo e solidale è uno
strumento di stimolo ma, appena potrà, la grande distribuzione
andrà direttamente dai produttori scartando l'intermediazione
(etica e di immagine, ma scomoda e onerosa) delle centrali
d'importazione.
Tra l'altro, per i prodotti alimentari ormai si tratta quasi sempre
d'importazione di materia prima: cacao, zucchero, miele... Ed è
impressionante constatare come con tre o quattro materie prime la
grande distribuzione riesca a proporre un'ampia gamma di prodotti sui
propri scaffali riuscendo a fare la maggior parte del fatturato europeo
di commercio equo e solidale.
Come non considerare che questa apparente sensibilità della GDO
sia solo di facciata dato che i prodotti etici non sostituiscono ma
affiancano gli altri prodotti del mercato convenzionale?
La logica della GDO è intercettare e proporre tutto quello che
il cliente vuole, anche se contraddittorio (il prodotto del commercio
equo e quello della Nestlè sullo stesso scaffale), perché
la sua logica è aumentare la possibilità di scelta del
consumatore, sottintendendo che ogni scelta è buona,
l'importante è che sia vendibile.
A proposito, il massimo della contraddizione si è raggiunto con
il lancio nell'ottobre del 2005 di una nuova miscela di caffè
con il marchio Fairtrade proprio per opera della Nestlè.
Sì, avete capito bene, nella logica della "contaminazione" hanno
concesso l'utilizzo del marchio ad una multinazionale come la
Nestlè che, al centro di numerose campagne di boicottaggio, ha
evidentemente intrapreso un'operazione di marketing finalizzata alla
rivalutazione della sua immagine. Incredibile che questa operazione
trovi sostegno in una delle organizzazioni del commercio equo solidale.
All'interno della filiera del commercio equo e solidale si verifica,
talvolta, un fatto curioso. In fase di acquisto si agisce per rompere
il monopolio degli intermediari che, spesso, sfruttano contadini e
artigiani; in fase di vendita, invece, ci si rivolge a strutture della
grande distribuzione che sono fortemente monopolistiche.
La dipendenza dal fatturato
Dipendere per una forte percentuale del proprio fatturato da grosse
catene di distribuzione è molto rischioso. La storia insegna che
cambi di strategie commerciali della GDO possono creare problemi a
grandi aziende; tanto più possono crearli a centrali di
importazione del commercio equo e solidale, che a confronto hanno un
piccolo potere di contrattazione.
Una scelta quasi irreversibile, da cui è difficile tornare
indietro, a meno di una pesante ristrutturazione interna per le
centrali d'importazione e gravi conseguenze pratiche per i produttori
improvvisamente orfani di un unico canale di vendita.
Una logica che, pur partendo dall'effettivo bisogno di garantire ai
produttori nuove opportunità sposta gradatamente l'obiettivo
sulla quota di mercato da raggiungere per conquistare la richiesta
"etica" dei consumatori. Alla fine, infatti, la domanda non è:
siamo riusciti a soddisfare il bisogno di quei contadini? Ma: abbiamo
raggiunto la quota di mercato che ci eravamo proposti?
Questione che porta inevitabilmente a privilegiare l'aspetto
commerciale, ossia la vendibilità del prodotto, rispetto
all'eticità del progetto, allargando sempre più le maglie
e i criteri per appoggiare un'organizzazione di produttori (ok se non
è un'associazione o una cooperativa, ok se non ha benefici
sociali per chi lavora, ok se non si hanno adeguate notizie sui
processi decisionali, ok se nel viaggio missione non mi è stato
possibile parlare direttamente con i lavoratori...) fino al rischio di
arrivare ad accettare aziende normalissime, semplicemente che non
sfruttano il lavoro minorile e che remunerano con la paga base i propri
dipendenti o in casi estremi neppure quello, come denunciato
dall'inchiesta del Financial Times.
Ma si è andati anche oltre, infatti, dalla fine di aprile del
2003, nelle tavole dei 140 ristoranti Mc Donald's in Svizzera si
può leggere un avviso che dice: "La collaborazione con Max
Havelaar le permette, per ogni caffè Aroma che degusta, di
portare il suo contributo a un commercio più giusto e al futuro
dei paesi in via di sviluppo".
Ecco che la sintesi tra concretezza e idealismo promessa dall'opzione
equo - solidale s'incrina, in alcuni casi, in tal misura da determinare
un effetto più dirompente di qualsiasi vetro infranto.
Marchio e prezzo giusto?
Mentre alcuni ritengono che per far crescere il commercio equo e
solidale sia indispensabile un marchio tipo FLO-International (Fair
Trade Labelling Organizations International), altri ritengono di
doversi opporre a un marchio che consente a Mc Donald's e Procter &
Gamble di vendere, ad esempio, caffè del commercio equo.
Si rende necessario, a questo punto, analizzare il concetto di prezzo
equo e chiedersi che cosa sia realmente. FLO lo identifica prevedendo
un sovrapprezzo alla quotazione mondiale del prodotto in questione.
Il prezzo così determinato può essere definito un prezzo in grado di garantire una vita dignitosa al produttore?
In realtà, ciò che viene definito prezzo equo è
solo una semplice operazione di sovrapprezzo standard applicato a una
quotazione mondiale. Se il prezzo mondiale non rispecchia la degna
remunerazione, l'aggiunta di un sovrapprezzo, analogamente, non
garantisce adeguate condizioni di vita. Il prezzo così costruito
è, semplicemente, ciò che sono disposti a pagare in
più i consumatori.
Non si dovrebbe, ricorrendo al "mito" del prezzo giusto, ridurre la
relazione a un tot in più che, di per sé, è
più vicino alla carità che alla giustizia.
Inoltre un'entità di certificazione come ad esempio il FLO
dovrebbe essere imparziale e non essere portatrice di alcun tipo di
interesse. Sebbene sia scontato che il marchio non "venda"
direttamente, la sua preoccupazione costante è come aumentare le
vendite, comportandosi con criteri di marca commerciale e non di
certificazione.
Presentandosi come un ente che certifica gli "standard internazionali
del Commercio Equo e Solidale", danneggia gravemente i produttori del
Sud che non può certificare. In tal senso, viene falsata la
realtà agli occhi dei consumatori del Nord, che sono indotti a
pensare che chi non viene certificato non rispetti alcuni punti
fondamentali del Fair Trade: mentre il motivo primo è che una
realtà come FLO non è in grado di garantire la vendita
dei prodotti che se troppo cari, o faremmo meglio a dire troppo equi,
non troverebbero spazio nei grandi canali di distribuzione.
Rimanendo, ancora per un attimo, nell'ottica commerciale la domanda da
porre non dovrebbe solo essere perché i prodotti fair trade sono
più cari, ma per quali ragioni gli altri prodotti costano meno?
Il pericolo che l'ipotesi sostenuta dal ComES, che pur sostenendo una
pratica riformista conserva una propria dignità ed un proprio
ruolo in un mondo che non si pone neppure il problema della giustizia
sociale, venga completamente riassorbita nelle spire del sistema
è più che reale. Come già verificato in altre
occasioni, il progressivo svuotamento della sua criticità
rispetto allo status quo ricondurrebbe le aspirazioni al cambiamento
all'interno di un meccanismo perfettamente funzionale agli attuali
rapporti di potere del mercato globale, riducendolo ad una nicchia
riservata a chi vuole dar pace alla propria coscienza.
Non esiste "prezzo giusto" in un'economia che si fonda sullo sfruttamento.
MarTa