Umanità Nova, n 34 del 29 ottobre 2006, anno 86

Ungheria '56. La rivoluzione
Lavoratori contro burocrazia


Sulla rivoluzione ungherese leggiamo, da qualche settimana, testimonianze e ricostruzioni di diverso interesse. Va detto che sovente questi testi pongono l'accento su di una questione, almeno a mio parere, abbastanza marginale e cioè sul tasso di sincerità dell'autocritica degli esponenti del PCI passati ai DS rispetto alla posizione filosovietica assunta cinquant'anni addietro.
È, infatti, evidente che su materie del genere potrebbero esprimersi con qualche competenza solo i confessori e gli psicanalisti dei dirigenti della sinistra postcomunista e noi non svolgiamo nessuna di queste attività.
Da un punto di vista strettamente politico, l'unico che ci interessa, si può solo rilevare che costoro sono oggi fedeli al blocco occidentale esattamente come allora lo erano a quello orientale e per ragioni simili.
Per parte nostra, la rivoluzione ungherese interessa non per ragioni di bottega ma per la rilevanza in sé di una crisi radicale del blocco sovietico e per l'emergere sulla scena del proletariato di un paese socialista come soggetto autonomo.
Cosa avvenne è noto, dopo la rivolta del 1953 della Germania orientale, il 1956 vide entrare in campo i lavoratori polacchi ed ungheresi ed il determinarsi di due crisi del blocco sovietico, all'interno di una crisi più generale, che si chiusero, provvisoriamente, con esiti notevolmente diversi.
Le ragioni profonde del movimento polacco e di quello ungherese sono altrettanto note, le condizioni di vita e di lavoro indecenti, la mancanza delle più elementari libertà politiche e civili, il fatto che il "socialismo" si rilevava come il potere dello stato partito e non dei lavoratori. La rivolta operaia si intrecciava immediatamente con quella dell'intellighenzia che rivendicava la possibilità di un'attività non controllata dallo stato partito e con la rivendicazioni nazionali frustrate dall'occupazione russa e dalla natura di satelliti dei partiti comunisti locali.
Il movimento che si sviluppò allora non può, d'altro canto, essere compreso se non lo si colloca all'interno delle contraddizioni aperte dalla cosiddetta destalinizzazione.
Come è noto, la destalinizzazione è una vera e propria rivoluzione dall'alto, un complesso passaggio che lo stato partito sovietico intraprende nel tentativo di liquidare i meccanismo di autodistruzione per l'apparato che la pratica staliniana aveva introdotto e di rilanciare un modello economico sociale che pativa un'evidente stagnazione.
Un superamento dello stalinismo realizzato, per certi versi, con metodi staliniani mediante l'attribuzione a Stalin di tutte, o quasi, le responsabilità delle purghe, del terrore, delle violazioni della "legalità socialista".
Alla periferia dell'impero, d'altro canto, la destalinizzazione comporta la valorizzazione delle componenti "riformiste" dei locali partiti comunisti e cioè di dirigenti caduti in disgrazia, mandati in carcere, messi ai margini dal partito.
L'epurazione dei dirigenti pesantemente compromessi con la prima fase del "socialismo" nell'Europa centrale e il cambio della guarda non potevano che suscitare aspettative non gestibili facilmente dai settori riformisti dell'apparato.
In Polonia la radicalizzazione del movimento viene riassorbita mediante il cambio della guardia ai vertici dello stato partito e un accordo con la Chiesa Cattolica che ottiene la fine della collettivizzazione nelle campagne. L'Unione Sovietica ottiene quello che più le interessa e cioè il fatto che la Polonia resta nel blocco sovietico. Non viene, insomma, messo in discussione il quadro geopolitico e il ruolo di governo del POUP (il locale PC).
I limiti del riformismo polacco emergeranno con forza nelle rivolte operaie del 1970 e del 1980 ma, almeno allora, il compromesso tiene.
In Ungheria il movimento assume caratteri radicali e, sia pure fra oscillazioni, l'Unione Sovietica decide la repressione frontale del movimento quando vede messa in discussione l'appartenenza dell'Ungheria al suo blocco.
Le ragioni della geopolitica l'hanno vinta sulle prudenze dei settori riformisti dell'apparato sovietico.
Che, d'altro canto, queste ragioni fossero centrali è dimostrato dal comportamento del blocco occidentale che usa la rivolta degli operai polacchi a fini propagandistici ma non muove un dito per sostenerli.
Paradossalmente, in quei mesi, vi sono obiettive convergenze fra Unione Sovietica ed Usa con gli USA impegnati a favorire lo smantellamento di quello che resta dell'impero britannico coinvolto, assieme alla Francia, nella crisi di Suez.
Il movimento ungherese sconta, e non è l'unico caso, pensiamo alla stessa rivoluzione spagnola, la mancanza di un movimento internazionale delle classi subalterne che possa sostenerne lo sviluppo e un sostanziale isolamento.
Paradossalmente, il potere in Ungheria passa ad una frazione riformista autoritaria del partito che avvierà una serie di riforme in senso mercantile del sistema garantendo, ancora la geopolitica, la disciplina al blocco orientale. Fatte le dovute proporzioni e tenendo conto delle evidenti differenze, possiamo comparare il socialismo ungherese degli anni '60 all'esperimento cinese degli anni '90.
Da un punto di vista rivoluzionario, l'Ungheria del 1956 è una conferma del giudizio che era stato dato decenni prima sulla reale natura sociale dell'Unione Sovietica. Il socialismo realizzatosi nell'Europa centro orientale non ha nulla a che vedere con l'autogoverno dei produttori associati.
Lo sviluppo dei consigli operai come centro del movimento è una riprova del sostanziale antagonismo che oppone i lavoratori alla burocrazia. I consigli operai sono l'espressione dell'autonomia politica della classe ed entrano in relazione con i settori non operai del movimento determinando una dialettica ricca che vede unite rivendicazioni economiche e politiche.
È innegabile che i lavoratori ungheresi, come quelli polacchi, abbiano in quel momento "preso sul serio" il socialismo cercando di realizzare nei fatti quanto era predicato dagli stessi partiti comunisti ed abbiano verificato la grande menzogna burocratica.
Gli stessi settori più onestamente convinti della necessità di un socialismo basato sulla democrazia operaia all'interno dei partiti comunisti vengono liquidati, nel peggiore dei casi, o emarginati nel migliore.
La rivoluzione ungherese assunse uno straordinario rilievo nella riflessione dei piccoli gruppi libertari di quegli anni, per un verso, e determinò l'uscita di gruppi intellettuali critici dai partiti comunisti.
Va detto che, in una fase globalmente controrivoluzionaria, i dissidenti dai partiti comunisti in gran parte dei casi assunsero posizioni socialdemocratiche e filo occidentali. Eppure questa crisi agì in maniera profonda, non potremmo spiegarci l'affermarsi di una componente libertaria nei movimenti degli anni '60 se dimenticassimo la discussione che coinvolse minoranze attive negli anni '50 dopo la rivoluzione ungherese.
Ripensare a quella vicenda è, dunque, necessario ancora oggi a fronte del persistere anche in una sinistra che si vuole rivoluzionaria di un approccio vincolato a schieramenti statuali secondo il quale ci si schiera contro un blocco e non si guarda alla reale natura sociale ed alla pratica dei suoi avversari politici.
La solitudine degli operai ungheresi, mi permetto un parallelo problematico, ricorda quella degli operai e dei proletari iracheni di oggi, vittime contemporaneamente dell'occupazione statunitense e delle violenze delle forze nazionaliste ed integraliste e, soprattutto, pone al centro della riflessione la questione sociale.

Cosimo Scarinzi

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