Sulla rivoluzione ungherese leggiamo, da qualche settimana,
testimonianze e ricostruzioni di diverso interesse. Va detto che
sovente questi testi pongono l'accento su di una questione, almeno a
mio parere, abbastanza marginale e cioè sul tasso di
sincerità dell'autocritica degli esponenti del PCI passati ai DS
rispetto alla posizione filosovietica assunta cinquant'anni addietro.
È, infatti, evidente che su materie del genere potrebbero
esprimersi con qualche competenza solo i confessori e gli psicanalisti
dei dirigenti della sinistra postcomunista e noi non svolgiamo nessuna
di queste attività.
Da un punto di vista strettamente politico, l'unico che ci interessa,
si può solo rilevare che costoro sono oggi fedeli al blocco
occidentale esattamente come allora lo erano a quello orientale e per
ragioni simili.
Per parte nostra, la rivoluzione ungherese interessa non per ragioni di
bottega ma per la rilevanza in sé di una crisi radicale del
blocco sovietico e per l'emergere sulla scena del proletariato di un
paese socialista come soggetto autonomo.
Cosa avvenne è noto, dopo la rivolta del 1953 della Germania
orientale, il 1956 vide entrare in campo i lavoratori polacchi ed
ungheresi ed il determinarsi di due crisi del blocco sovietico,
all'interno di una crisi più generale, che si chiusero,
provvisoriamente, con esiti notevolmente diversi.
Le ragioni profonde del movimento polacco e di quello ungherese sono
altrettanto note, le condizioni di vita e di lavoro indecenti, la
mancanza delle più elementari libertà politiche e civili,
il fatto che il "socialismo" si rilevava come il potere dello stato
partito e non dei lavoratori. La rivolta operaia si intrecciava
immediatamente con quella dell'intellighenzia che rivendicava la
possibilità di un'attività non controllata dallo stato
partito e con la rivendicazioni nazionali frustrate dall'occupazione
russa e dalla natura di satelliti dei partiti comunisti locali.
Il movimento che si sviluppò allora non può, d'altro
canto, essere compreso se non lo si colloca all'interno delle
contraddizioni aperte dalla cosiddetta destalinizzazione.
Come è noto, la destalinizzazione è una vera e propria
rivoluzione dall'alto, un complesso passaggio che lo stato partito
sovietico intraprende nel tentativo di liquidare i meccanismo di
autodistruzione per l'apparato che la pratica staliniana aveva
introdotto e di rilanciare un modello economico sociale che pativa
un'evidente stagnazione.
Un superamento dello stalinismo realizzato, per certi versi, con metodi
staliniani mediante l'attribuzione a Stalin di tutte, o quasi, le
responsabilità delle purghe, del terrore, delle violazioni della
"legalità socialista".
Alla periferia dell'impero, d'altro canto, la destalinizzazione
comporta la valorizzazione delle componenti "riformiste" dei locali
partiti comunisti e cioè di dirigenti caduti in disgrazia,
mandati in carcere, messi ai margini dal partito.
L'epurazione dei dirigenti pesantemente compromessi con la prima fase
del "socialismo" nell'Europa centrale e il cambio della guarda non
potevano che suscitare aspettative non gestibili facilmente dai settori
riformisti dell'apparato.
In Polonia la radicalizzazione del movimento viene riassorbita mediante
il cambio della guardia ai vertici dello stato partito e un accordo con
la Chiesa Cattolica che ottiene la fine della collettivizzazione nelle
campagne. L'Unione Sovietica ottiene quello che più le interessa
e cioè il fatto che la Polonia resta nel blocco sovietico. Non
viene, insomma, messo in discussione il quadro geopolitico e il ruolo
di governo del POUP (il locale PC).
I limiti del riformismo polacco emergeranno con forza nelle rivolte
operaie del 1970 e del 1980 ma, almeno allora, il compromesso tiene.
In Ungheria il movimento assume caratteri radicali e, sia pure fra
oscillazioni, l'Unione Sovietica decide la repressione frontale del
movimento quando vede messa in discussione l'appartenenza dell'Ungheria
al suo blocco.
Le ragioni della geopolitica l'hanno vinta sulle prudenze dei settori riformisti dell'apparato sovietico.
Che, d'altro canto, queste ragioni fossero centrali è dimostrato
dal comportamento del blocco occidentale che usa la rivolta degli
operai polacchi a fini propagandistici ma non muove un dito per
sostenerli.
Paradossalmente, in quei mesi, vi sono obiettive convergenze fra Unione
Sovietica ed Usa con gli USA impegnati a favorire lo smantellamento di
quello che resta dell'impero britannico coinvolto, assieme alla
Francia, nella crisi di Suez.
Il movimento ungherese sconta, e non è l'unico caso, pensiamo
alla stessa rivoluzione spagnola, la mancanza di un movimento
internazionale delle classi subalterne che possa sostenerne lo sviluppo
e un sostanziale isolamento.
Paradossalmente, il potere in Ungheria passa ad una frazione riformista
autoritaria del partito che avvierà una serie di riforme in
senso mercantile del sistema garantendo, ancora la geopolitica, la
disciplina al blocco orientale. Fatte le dovute proporzioni e tenendo
conto delle evidenti differenze, possiamo comparare il socialismo
ungherese degli anni '60 all'esperimento cinese degli anni '90.
Da un punto di vista rivoluzionario, l'Ungheria del 1956 è una
conferma del giudizio che era stato dato decenni prima sulla reale
natura sociale dell'Unione Sovietica. Il socialismo realizzatosi
nell'Europa centro orientale non ha nulla a che vedere con
l'autogoverno dei produttori associati.
Lo sviluppo dei consigli operai come centro del movimento è una
riprova del sostanziale antagonismo che oppone i lavoratori alla
burocrazia. I consigli operai sono l'espressione dell'autonomia
politica della classe ed entrano in relazione con i settori non operai
del movimento determinando una dialettica ricca che vede unite
rivendicazioni economiche e politiche.
È innegabile che i lavoratori ungheresi, come quelli polacchi,
abbiano in quel momento "preso sul serio" il socialismo cercando di
realizzare nei fatti quanto era predicato dagli stessi partiti
comunisti ed abbiano verificato la grande menzogna burocratica.
Gli stessi settori più onestamente convinti della
necessità di un socialismo basato sulla democrazia operaia
all'interno dei partiti comunisti vengono liquidati, nel peggiore dei
casi, o emarginati nel migliore.
La rivoluzione ungherese assunse uno straordinario rilievo nella
riflessione dei piccoli gruppi libertari di quegli anni, per un verso,
e determinò l'uscita di gruppi intellettuali critici dai partiti
comunisti.
Va detto che, in una fase globalmente controrivoluzionaria, i
dissidenti dai partiti comunisti in gran parte dei casi assunsero
posizioni socialdemocratiche e filo occidentali. Eppure questa crisi
agì in maniera profonda, non potremmo spiegarci l'affermarsi di
una componente libertaria nei movimenti degli anni '60 se
dimenticassimo la discussione che coinvolse minoranze attive negli anni
'50 dopo la rivoluzione ungherese.
Ripensare a quella vicenda è, dunque, necessario ancora oggi a
fronte del persistere anche in una sinistra che si vuole rivoluzionaria
di un approccio vincolato a schieramenti statuali secondo il quale ci
si schiera contro un blocco e non si guarda alla reale natura sociale
ed alla pratica dei suoi avversari politici.
La solitudine degli operai ungheresi, mi permetto un parallelo
problematico, ricorda quella degli operai e dei proletari iracheni di
oggi, vittime contemporaneamente dell'occupazione statunitense e delle
violenze delle forze nazionaliste ed integraliste e, soprattutto, pone
al centro della riflessione la questione sociale.
Cosimo Scarinzi