Torna il 4 novembre, non più "festa della vittoria" dell'Italia
nella prima guerra mondiale, ma "festa dell'unità nazionale e
delle forze armate". Siamo passati dalla celebrazione dell'immane
carneficina di popolo della "grande guerra" alle caserme aperte a
famiglie che fotografano i bambini sul carrarmato. Siamo passati dalla
celebrazione della "vittoria" a quella della "unità nazionale",
con un linguaggio più "politicamente corretto".
La mistificazione della guerra e dei suoi strumenti negli anni si
è approfondita ed affinata. Lo snodo va individuato nella
qualificazione di "operazione di polizia" della prima guerra del Golfo
e al primo ossimoro costituito dall'aggettivazione come "umanitaria"
della guerra per il Kosovo. Si giunge quindi all'altro ossimoro della
guerra permanente al terrorismo finalizzata alla "libertà
duratura", appunto l'operazione "Enduring freedom". Il plagio della
lingua ha veicolato il plagio propagandistico dell'informazione e della
percezione degli eventi da parte della società. L'accostamento
della guerra ad immagini di profughi da salvare, contendenti da
dividere, regimi politici dittatoriali da abbattere, il messaggio della
guerra come veicolo di pacificazione, liberazione, democratizzazione,
civilizzazione, ha fatto breccia. Supportato da campagne di aiuto "alle
popolazione colpite", dal coinvolgimento di gruppi di volontariato,
scuole, famiglie, televisione, la guerra "democratica ed umanitaria"
copre il volto della solita vecchia sporca guerra, prolungamento della
politica con altri mezzi. Che sia in Afganistan in Iraq od in Libano,
l'invio di truppe italiane su fronti di guerra ha sempre lo scopo di
portare ad effetto un disegno politico, a ruota di un "potente alleato"
come in Afganistan e Iraq o nell'ambito di un'autonoma politica estera
per affermare "interessi nazionali", come in Iraq (concessione ENI per
sfruttare giacimenti petroliferi vicino a Nassiryah) o in Libano (i
paesi del mediterraneo e del medio oriente come partner economici
naturali dell'Italia).
Il coinvolgimento nei vari scacchieri ricordati è avvenuto in
tempi diversi, ma è significativo che il gravosissimo impegno di
spesa per il finanziamento delle missioni militari all'estero sia
insensibile alle vicende del bilancio del paese. Per la guerra i soldi
si trovano sempre. E, anzi, la guerra è un grande affare: per
chi, naturalmente, gli affari li sa fare. La chiusura di basi americane
in Germania (decisione presa quando la Germania decise di non
appoggiare l'attacco all'Iraq nel 2003) diventa per la città di
Vicenza "un'affare" che potrebbe fare affluire nelle casse del comune
cifre da capogiro. Per la guerra i soldi ci sono sempre. Il governo
"umanitario e democratico" di Prodi, come quello di Berlusconi, taglia
su tutto (trasferimenti ai comuni e quindi servizi; contratti dei
dipendenti pubblici; sanità, scuola), convoglia i soldi del
salario differito dei lavoratori (il TFR, la liquidazione), attraverso
l'INPS, sulle "grandi opere" (TAV, MOSE) che sono fatte dalle "grandi
aziende" e sono "grandi affari", ma trova i soldi per mandare truppe
italiane, soldati di mestiere, professionisti della morte e della
guerra, a difendere gli "affari", italiani e non solo, in giro per il
mondo. Giacché con il venir meno della leva e la
professionalizzazione dell'esercito, la guerra è pure "un
lavoro": per uomini e oggi anche per donne che hanno "conquistato" la
più assurda delle "parità", uomini e donne che per
campare devono (?) o vogliono fare questo. E soldi il governo trova
anche per tenere aperti, ampliare e creare dei nuovi centri di
detenzione per immigrati, i famigerati CPE voluti dalla legge
Turco-Napolitano e non certo dalla pur comunque liberticida legge
Bossi-Fini.
Dunque antimilitarismo internazionalismo e questione sociale insieme
stanno e insieme cadono. Così come la critica dello Stato quale
veicolo di militarismo, politica di potenza, riproduzione dello
sfruttamento, mistificazione del reale attraverso scuola ed
informazione. L'anarchia è tutto questo: e da qui nasce la sua
attualità e la sua urgenza.
W.B.