Nei giorni scorsi è venuta alla luce una brutta storia che aiuta
a capire meglio le dinamiche poste in essere all'interno dei centri di
permanenza temporanea in Italia.
È successo che un gruppo di profughi dell'Africa nera (undici
giovani uomini provenienti da Eritrea, Somalia, Sudan) ha denunciato
attraverso un'intervista pubblicata su La Repubblica di sabato 21
novembre alcuni misfatti di cui sono stati testimoni e che si sono
consumati durante il loro trattenimento nel Centro di identificazione
di Caltanissetta.
In buona sostanza, i richiedenti asilo (che hanno tutti un permesso di
soggiorno temporaneo in virtù dell'ottenimento della protezione
umanitaria) hanno vissuto sulla loro pelle una serie di ingiustizie e
vessazioni di cui si sono resi protagonisti un po' tutti: personale
della cooperativa che gestisce il campo di Caltanissetta (la
Cooperativa Albatros 1973), personale di polizia, mediatori culturali,
immigrati reclusi. I testimoni hanno raccontato di aver subìto
delle discriminazioni per via della loro origine etnica: a differenza
dei maghrebini (più chiari di pelle e più "occidentali"
nell'attitudine) dovevano pagare costi aggiuntivi al personale
dell'ente gestore per servizi di assistenza essenziale e venivano
sistematicamente trascurati nell'accesso a servizi di ogni genere.
Come se non bastasse, i profughi hanno denunciato di aver visto
più volte gruppi di immigrati "bianchi" fuggire dal campo di
internamento scavalcando le recinzioni nell'assoluta inerzia del
personale di polizia. Dalle loro testimonianze emerge il dato che,
probabilmente, queste fughe erano ottenute dietro pagamento di una
somma di denaro. Subito dopo la pubblicazione di queste dichiarazioni,
la procura della Repubblica di Caltanissetta ha aperto un'inchiesta
così come il Ministero dell'interno. I profughi, che
coraggiosamente si sono esposti nel denunciare le dinamiche di cui
sopra ma che - a onor del vero - non sono stati minimamente tutelati da
Repubblica che ha preferito seguire la logica dello scoop umanitario
senza curarsi delle conseguenze, sono stati puntualmente fatti oggetto
di intimidazioni poliziesche. Pedinati per strada ad Agrigento
(città in cui si sono trasferiti nel centro di accoglienza
"Acuarinto"), sono stati raggiunti da tre funzionari della questura di
Caltanissetta e interrogati alla presenza di Natalia Gro, dirigente
della stessa Acuarinto. Un'intimidazione bella e buona che ha gettato
nello sconforto i profughi che ora non si sentono più al sicuro.
Il campo di internamento per immigrati di Caltanissetta è
costituito da un complesso edilizio piuttosto grande, immerso nella
campagna in una località periferica denominata Pian del Lago.
Nello stesso campo (recintato e sorvegliato militarmente) insistono sia
il CPT sia il centro di identificazione per richiedenti asilo. Di per
sé, questa sovrapposizione fra strutture che teoricamente
dovrebbero assolvere a compiti diversi (restrizione della
libertà per il CPT, sorveglianza generica e libertà di
movimento nel centro d'identificazione) è sempre stata
denunciata dal movimento antirazzista siciliano come una inaccettabile
violazione dei diritti umani. Le testimonianze dei profughi confermano
l'esistenza di un approccio particolarmente mafioso nella gestione del
CPT nisseno che ha contribuito negli ultimi anni a creare provocazioni
e depistaggi volti a screditare e criminalizzare il movimento
antirazzista e far sì che di Caltanissetta si parlasse il meno
possibile. Le fughe "a pagamento" dal CPT nisseno rientrano in questo
quadro di desolante speculazione della sofferenza altrui. Non ci
permettiamo di giudicare chi paga per scappare perché, lo
comprendiamo, quando si è in catene si fa di tutto per
riacquistare la libertà. Non possiamo comunque fare a meno di
ribadire la nostra condanna di un sistema di abbrutimento generalizzato
che fa leva sulla discriminazione tra immigrati, sulla prevaricazione e
sull'omertà mafiosa per mantenere la possente macchina
repressiva dei CPT che costituisce una stomachevole fonte di guadagno
per lo stato, la mafia, i padroni e i professionisti del finto
volontariato.
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