Vi proponiamo il secondo di una serie
di articoli dedicati alla "Nuova Destra". Il primo. "La "nuova destra"
di Alain de Benoist. Differenzialismo razzista" è comparso su
Umanità Nova n. 31.
"In un mondo marcato dalla crisi generalizzata delle istituzioni e dei
grandi sistemi di integrazione sociale, l'affondamento dello
Stato-nazione e la crescente insignificanza delle frontiere
territoriali hanno visto riapparire sotto forma di comunità e di
reti di rapporti, una formidabile sete di ri-radicamento. La
società civile si ristruttura spontaneamente, ricreando gruppi e
'tribù' che cercano di rimediare all'indifferenza crescente dei
ruoli (…) ricorrendo alla democrazia diretta e al principio di
sussidiarietà. Questo fenomeno, attraverso la sua rapida
espansione 'virale', mostra da solo che si è già usciti
dalla modernità. Il desiderio di eguaglianza, succeduto a quello
di libertà, fu la grande passione dei tempi moderni. Quello dei
tempi post-moderni sarà il desiderio di identità."
Il tema identitario è un argomento sul quale la nuova destra, ma
non solo, sta cercando di costruire il suo impianto teorico forte per
il secolo a venire: ma di quale identità si parla e quali sono i
presupposti costitutivi di questo modello neo-comunitario?
In molti, infatti, anche a sinistra, hanno tentato di opporre forme di
resistenza locale ai sistemi alienanti generali e generalizzanti di
tipo mondiale, da cui il nome indecifrabile di globalizzazione. Dalla
produzione dei formaggi di fossa, al recupero di lingue sommerse, ai
balli tradizionali (penso alla mia vicina "Occitania") la gamma delle
opposizioni alla globalizzazione cerca di trovare sponde anche dove
sponde vere e proprie non ci sono: sono uno di quelli che pensano che
se le cose (in genere) rimangono nel tempo, questo non avviene per
processi decisionali dal basso o dall'alto che siano, bandiere e
stendardi compresi, ma da prassi consolidate e non necessariamente
spiegate. Tanto per capirci: dalle parti di mio nonno, nel profondo
cuneese, quando ero piccolo tutti parlavano il dialetto, perché
era normale parlare in dialetto. Adesso lo parlano ancora in tanti, ma
non più come prima e molti ragazzi e ragazzi usano soltanto la
lingua italiana. Non credo che su questo come su molte altre questioni
sia possibile rimediare, sempre che si debba e sia giusto farlo,
creando scuole, corsi di piemontese etc: sono processi artificiali che
contrastano e non accompagnano evoluzioni o involuzioni che a dir si
voglia, ma qui entriamo nel merito del giudizio di valore, di persone
che abitano quei luoghi. Molti dei tentativi di recupero di tradizioni,
senza che vengano messi mai in discussione, cosa di per sé, a
mio parere, grave, le ragioni della nascita e dello sviluppo delle
stesse, sono volti a costituire e a rimarcare diversità e
differenze escludenti. Su questo il lungo lavorio della Lega, ad
esempio, ma anche di Illy, il centrosinistrorso nordestino e di tanti
altri si è incanalato in questa direzione: recupero formale
delle tradizioni come forma di chiusura verso "allogeni" in genere,
terroni, negri, omosessuali etc ed apertura massima al sistema mondiale
di mercato, ovvero il capitalismo più sfrenato. Ed è
proprio questa la caratterizzazione principale della comunità
costitutiva della Nuova Destra: l'appartenenza ad essa è
anteriore all'unione dei suoi membri. Si è membro di una
comunità etnica, religiosa o sociale indipendentemente dal fatto
che se ne voglia far parte o meno e che si sceglie come legame
volontario, per acquisirne, al contrario, "diritti e doveri" di
nascita. Questa posizione ha una inequivocabile connotazione razziale:
se i diritti sono nativi, ovvero di appartenenza, da questi stessi
diritti ne sono esclusi automaticamente tutti coloro che non fanno
parte della comunità stessa. Questo concetto sta anche alla base
di una certa idea di multiculturalismo sociale come semplice
coesistenza di comunità separate all'interno di uno stesso
territorio, che è poi il modello dell'apartheid interno,
contraltare politico al progetto assimilazionista statolatrico e
neo-illuminista dei governi integrazionisti. Per provare a fare un
esempio concreto, la nuova destra non potrebbe mai intervenire contro
la pratica dell'infibulazione, qui come in altri territori del mondo,
perché in astratto non esistono diritti umani e tantomeno
diritti delle donne in quanto tali, ma solo diritti appartenenti a
comunità storiche e quindi risolvibili all'interno di quelle. In
questo senso, ma ciò avviene in molte spiegazioni anche a
sinistra, non vengono mai messe in discussione le modalità con
cui una "comunità" si appropria di pratiche, di varia
nefandezza, né in che modo queste corrispondano a nuovi innesti
prodotti da altri inserimenti sociali e culturali (ad esempio l'Islam).
La tradizione viene appunto risolta in forma storica inamovibile
a-temporale e soprattutto a-conflittuale. Si pensa ciò che se
ciò avviene da secoli, questo, per solo fatto appunto che
capita, sia di fatto accettato acriticamente da tutti i membri della
società, che non produca conflittualità interne né
esterne e così via. È lo stesso discorso pernicioso
sull'autodeterminazione dei popoli, che non si capisce bene in che cosa
di debbano auto-determinare, se non nella forma della resistenza alle
ingerenze imperialistiche. Ma appunto, riproviamo a chiamare le cose
con il loro nome, ovvero che se ci si oppone all'invasione
economico-politica e militare di predoni armati da governi di vario
tipo, si tenta di resistere ai nuovi imperialismi criminali e
massacratori, ma questo non implica affatto che nel processo, inverso
all'occupazione, di auto-determinazione si stia costruendo una
società libera da sfruttamento, clericalismo, sopraffazioni,
maschilismo etc. Nessuno potrà convincermi, per quanto pensi che
sia giusto opporsi ai bombardamenti assassini di Israele, che Hezbollah
sia un movimento liberazione.
La domanda identitaria tenta di rispondere, a priori, al quesito
primordiale: "Chi sono?" La comunità chiusa sta alla base delle
scelte che l'individuo effettua e tramanda valori e comportamenti che
creano l'individuo in quanto persona e, di conseguenza, le appartenenze
non vengono mai scelte, ma sono fissate una volta per tutte.
Esistono altre forme di comunità non chiuse? A questo quesito
non so rispondere. Penso però che la questione aperta dalla
nuova destra e da alcune sinistre sia seria ed importante proprio per
le ricadute politiche, a mio parere negative, che si possono avere.
Allora quale risposta o quali risposte, sempre che sia possibile darle,
da un punto di vista di classe ed anarchico. Partiamo inizialmente da
due postulati:
1) Ognuno di noi nasce in contesti sociali, politici, culturali,
economici che sono la costruzione e l'intreccio di tantissimi fattori
che si muovono sia su di una scala temporale consequenziale o lineare
sia su una scala di contemporaneità. Da essi non possiamo in
alcun modo prescindere, ma possiamo però lottare per modificarli
e contribuire a modificarli in virtù di principi e valori propri
e in virtù di scambi con altre persone che portano similarmente
a noi principi e valori comuni.
2) I nostri principi e valori comuni, e mi riferisco in particolare a
quelli di eguaglianza sociale, ovvero di comunismo anti-gerarchico ed
anticapitalistico, e di libertà come ricerca e come accesso
libero alla sperimentazione (culturale, sociale etc.), ovvero
l'anarchia, sono nati ed impregnati di positivismo ottocentesco
europeo, limite intrinseco teorico e geografico allo sviluppo
universalistico delle nostre teorie.
Quale è allora la nostra forza, o meglio quale dovrebbe essere?
1) Le nostre teorie si rifiutano di pre-determinare gli esiti della
storia, ma provano a cambiarla come atto cosciente e volontario
dell'essere umano volto a modificare la condizione di sudditanza nella
quale si trova.
2) Le nostre teorie, benché ancorate a luoghi ed ambienti,
quando parlano di giustizia sociale radicale parlano invero ai
più nel mondo e parlano gli stessi linguaggi di persone che
richiamano con parole diverse gli stessi concetti.
3) La nostra grande forza è nella libera sperimentazione, dove,
accomunati da principi comuni di eguaglianza e di libertà, non
abbiamo modelli pre-costituiti di socialismo da caserma.
E quindi pensiamo, alla fine, che in ogni luogo, le persone,
liberamente associate, possano trovare la loro strada per liberarsi
dalle tradizioni di sfruttamento e mantenere ciò che, invece,
provenendo dal passato più o meno remoto possa contribuire alla
loro crescita a quella degli altri ed alla loro libertà.
Sappiamo anche che questo processo, sempre che avvenga, non sarà
né indolore, né senza conflitto: anzi di conflitto si
nutre e del conflitto si fa motore.
Pietro Stara