La manifestazione contro la precarietà, che si è tenuta
lo scorso quattro novembre a Roma, riassume in sé non solo tutte
le contraddizioni del presente, ma, a ben vedere, ci racconta gli
ultimi anni della storia patria e dei movimenti di massa nati e
cresciuti e in gran parte già morti dopo il 1999 di Seattle. Non
solo di questo ci parla, ma anche delle organizzazioni, grandi e
piccine, dei ruoli istituzionali dei politicanti di mestiere ed anche
di tanta gente comune che prende parte a questi mega raduni.
È innegabile che la manifestazione sia stata poderosa dal punto
di vista numerico: fossero stati anche 100.000 o meno, ma sicuramente
di più poco importa, i numeri parlano ed in maniera assai
chiara. Sembrerebbe, a vedere da questi dati, che se si è in
grado di avere una manifestazione di questa entità contro il
precariato, ci siano, a livello locale, altrettante intense e poderose
conflittualità sociali e sindacali. E veniamo qui al primo
grande nodo in essere: così come in passato per altre
mobilitazioni oceaniche, la piazza mediatica centrale e visibile
sostituisce spesso quasi sino ad annullarle le lotte locali, parziali
sin quanto vogliamo, ma pur tuttavia profondamente legate ad un
territorio ed alla conflittualità di prossimità. Tradotto
significa che molte persone ciò che non riescono ad esprime
quotidianamente nei posti di lavoro cercano in qualche modo di dirlo a
tutti o per lo meno di trovarsi con altri che vivono situazioni di
precarietà lavorativa similari. Manco a dirlo invece di essere
un punto di forza del movimento di classe, rappresentano un punto di
debolezza dove la convergenza di moltitudini sopraggiunte un po' da
dovunque serve più che ad ottenere vantaggi collettivi o
ricadute locali di lotte sociali e lavorative a comunicare un'opinione
di massa e diffusa che altrimenti non verrebbe ascoltata da nessuno.
Appunto ascoltare: ma da chi e poi perché?
Un passo alla volta: decine di migliaia di persone si riversano nella
capitale provenienti da treni ed autobus, gratis, o a prezzi
estremamente modici, da ogni parte d'Italia. Soltanto le grandi
organizzazioni sindacali e di partito possono far viaggiare la gente
gratis, cioè a spese o dei lavoratori che pagano le tessere o
dei trasferimenti monetari consistenti che lo stato versa ai partiti
tramite il parlamento o grazie ai servizi (CAF, patronati e tra un po'
anche le pensioni) affidati in gestione. La potenza economica non
determina proporzionalmente la massa politica in movimento, ma
certamente contribuisce a formarla e sostenerla in maniera
significativa. Ed infine, ma non secondarie, le ragioni: qui la
contraddizione esplode nella sua piena e vivace interezza, togliendo
quei veli che l'infingimento mediatico ha steso miserevolmente sopra. I
due più grossi referenti organizzativi della manifestazione,
CGIL e Rifondazione comunista, non solo non hanno mai fatto nulla
contro la precarizzazione lavorativa, ma sono stati strumento cosciente
del peggioramento lavorativo di milioni di persone. E questo anche per
quanto riguarda l'agibilità degli spazi di confronto e di
decisione. E questo oramai da più di dieci anni, anche se per la
CGIL bisogna fare qualche saltino indietro. Ma facciamo finta che
questo non sia vero, facciamo finta cioè che siano stati
l'ultimo baluardo possibile contro una liberalizzazione selvaggia che
altrimenti avrebbe eroso consistenti settori sociali della popolazione.
Facciamo appunto finta: perché altrimenti bisognerebbe chiedere
a questi stessi promotori come mai non scioperano contro una
finanziaria di guerra, liberista, taglia salari, pensioni e tfr etc. La
risposta sarebbe altrettanto vera se fosse semplice: perché sono
al governo e perché fintanto che queste cose le fanno loro vanno
non solo bene, ma benissimo. È quello che succede ed è
successo con le guerre: ex Jugoslavia nessuna mobilitazione sindacale
(mentre Rifondazione appena uscita dal governo manifesta contro i
cugini del Pdci e diessini di centro, di destra e di sinistra
sostengono disciplinatamente l'intervento "umanitario"); Afganistan
post 2001: nessuna mobilitazione. Iraq: tutti in piazza perché
c'era Berlusconi con Bush. Oggi: Afganistan, Libano, Africa etc,
raddoppio spese militari: nulla.
Non c'è dubbio che molte delle persone che sono scese in piazza
non siano affatto filogovernative e non mi interessa nemmeno giudicare
scelte individuali di varia natura. Ma non mi interessa nemmeno
giudicare quelle filo-governative in quanto tali. Quello che mi
interessa, da un punto di vista di classe è come poter arrivare
a ricostruire un movimento operaio autonomo da ogni forma governativa
ed istituzionale che inizi ad intraprendere un percorso che sappia fare
della propria forza e delle proprie capacità un criterio
discriminante per non essere fagocitato ed usato, sì usato, dal
sistema di potere. Ma per fare questo bisogna smetterla una volta per
tutte di inseguire il paparino di turno, una volta il PCI ed ora la
CGIL, o qualche deputato di fama, soprattutto perché non serve a
nulla, ovvero non si modificano di un millimetro i rapporti di forza
fra le classi e non si ottengono miglioramenti contingenti di alcun
tipo. O qualcuno vuole dimostrare il contrario?
Se qualcosa dobbiamo trarre dalla lotta francese anti-CPE è che
è stata vittoriosa perché forte, decisa, continuativa e
forse perché i sindacati, come i partiti erano poco, se non
nulla, presenti.
Pietro Stara